Nei villaggi della Cina si riscopre il cibo sano

Il settimo Congresso Internazionale di Slow Food si tiene in questi giorni in Cina, a Chengdu, nella provincia del Sichuan, che nonostante la dirompente crescita economica non ha mai messo da parte i solidi saperi e le tradizioni culinarie. Il Sichuan non è stata una scelta casuale per gli organizzatori del Congresso: il clima eccellente, la varietà di prodotti e la ricca biodiversità sono il fiore all’occhiello di questa regione cinese. La Cina ora più che mai si interroga sulla grande sfida del futuro sul cibo: come potrà sfamare un quinto della popolazione mondiale con solo 7% di terre coltivabili? La risposta sta nel ritornare alle conoscenze delle comunità rurali e alla tradizione culinaria millenaria che i piccoli villaggi di contadini tramandano di padre in figlio. Finora Pechino ha preferito investire in allevamenti intensivi, uso di pesticidi e fertilizzanti, nocivi per la biodiversità e per l’uomo. La ricostruzione ecologica e sociale delle aree rurali è la strada alternativa indicata dai contadini appoggiati dagli attivisti di Slow Food, ma il governo cinese dovrà agire in modo incisivo: purtroppo ad oggi le falde acquifere cinesi sono in gran parte inquinate da metalli pesanti, la gente subisce espropri delle terre a causa della speculazione edilizia per la costruzione di edifici industriali e complessi abitativi e, non ultimo, il cambiamento climatico ha portato siccità e carestia. Così le zone rurali si sono letteralmente svuotate a favore delle megalopoli, che insieme contengono metà della popolazione cinese. Il progetto di Slow Food, il movimento di Carlo Petrini, è quello di rilanciare i villaggi rurali cinesi attraverso il cibo sano, pulito e le coltivazioni sostenibili: un bel progetto che tuttavia rischia di non attirare i giovani cinesi, per i quali la campagna è ancora sinonimo di privazioni e miseria.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

33 siti costieri italiani rischiano di sparire entro il 2100

Entro il 2100 lo scenario migliore prevede un innalzamento dei mari di 30 cm, quello peggiore di un metro e mezzo: zone come la Laguna di Venezia e il Delta del Po saranno palesemente ad alto rischio di essere sommerse dalle mareggiate. Ma vi sono anche altre zone come la Versilia, la piana pontina, Fondi, e le zone costiere di Catania, Taranto e Cagliari che rischierebbero molto: 7500 chilometri quadrati di costa che tra ottant’anni potrebbero sparire sott’acqua. L’Associazione italiana di geomorfologi avverte che il pericolo non verrà soltanto da terremoti, vulcani o esondazioni di fiumi ma anche dalle mareggiate, causate dalle precipitazioni sempre più intense (quasi monsoniche) che si verificheranno nel mar Mediterraneo con conseguenti alluvioni ed inondazioni.

Per questo motivo le università di Bari e del Salento, in collaborazione col Centro studi mediterraneo per i cambiamenti climatici, hanno messo a punto un sistema innovativo, presentato ieri, in grado di definire in tempo reale gli effetti di una mareggiata eccezionale e costruire scenari verosimili: il sistema si chiama “Start”, acronimo di Sistemi di rapid mapping e controllo del territorio costiero e marino. Ormai è provato scientificamente che gli effetti del mutamento climatico implementato dall’attività umana impatteranno duramente anche sulla fascia costiera italiana ed è chiaro a tutti che non si può più essere impreparati a questi eventi.

DA “IL CORRIERE DELLA SERA”

A cura di M.B.

Dal Giappone agli USA: lo tsunami del 2011 ha trascinato 600 specie attraverso il Pacifico

Ben 289 specie marine sono state trascinate per attraverso l’Oceano Pacifico dallo tsunami che si verificò in Giappone nel marzo 2011: tra di esse vi sono telline, anemoni, meduse, stelle di mare.

Una vera e propria migrazione di massa, mai vista nella storia secondo lo scienziato James T. Carlton del Williams College in USA, che ha condotto in collaborazione con l’Università dell’Oregon una ricerca sulle specie marine giapponesi presenti nel mare della costa dell’Oregon.

Gli organismi marini hanno sostanzialmente viaggiato “a cavallo” di pezzi di plastica, bottiglie e residui di barche sull’onda dello tsunami, e sono state trascinate verso un nuovo habitat molto lontano da quello originario: il 20% delle specie studiate sembra siano riuscite a riprodursi, ma è ancora presto per dire come se la caveranno a lungo termine nel nuovo ambiente.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

In Italia l’inquinamento uccide di più che in altre nazioni europee

Nonostante il leggero miglioramento (generalizzato) riscontrato nella qualità dell’aria negli ultimi anni, l’Italia resta uno dei paesi in Europa in cui si contano più decessi per inquinamento.

Un recente report elaborato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile con Enea e Ferrovie, ha riscontrato come l’Italia, con 90.000 morti premature, 1500 decessi per milione di abitanti, batte grandi paesi europei come Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna. Sappiamo da tempo che la qualità dell’aria peggiore è quella in Val Padana, ma anche le aree metropolitane di Milano, Roma, Firenze, Napoli e Taranto presentano situazioni critiche. La responsabilità va cercata non solo nel traffico automobilistico e nei motori diesel, ma anche nell’industria, nell’agricoltura e nel riscaldamento (a biomasse legnose, pellet e tradizionali). In Europa si contano 500.000 morti premature l’anno a causa dell’inquinamento atmosferico, 20 volte il numero di vittime di incidenti stradali (e il peso stimato sul Pil europeo del deterioramento della salute per lo stesso problema è pari al 2-6%). In Italia tuttavia i dati sono peggiori che altrove, abbiamo infatti un costante record negativo per il particolato e il biossido di azoto e i miglioramenti degli ultimi anni sono troppo limitati rispetto all’obiettivo fissato nel 2030 per la riduzione degli inquinanti atmosferici.

Le biomasse legnose, dato che forse ci sorprenderà, sono responsabili del 99 % del particolato nelle aree urbane residenziali (stufe manuali e caminetti aperti per il 90 % mentre i più recenti caminetti chiusi e stufe a ricarica automatica per il 9 %). La produzione agricola con i suoi fertilizzanti e la zootecnia, l’industria, la generazione elettrica e lo smaltimento rifiuti sono invece responsabili dell’inquinamento atmosferico extraurbano. Il rapporto della Fondazione per lo sviluppo sostenibile propone un piano che comprende la riduzione di auto private in città, con conseguente implementazione del trasporto pubblico, riqualificazione di edifici pubblici e privati, limitazione delle biomasse per il riscaldamento domestico, e il controllo delle emissioni in agricoltura e nell’industria. Tutte proposte che finora il governo non ha preso seriamente in considerazione, o comunque in modo molto tiepido e limitato.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

L’estinzione di massa minaccia il nostro cibo

La sesta estinzione di massa innescata dal cambiamento climatico non solo rischia di far sparire la fauna selvatica che associamo alla bellezza della natura, i grandi mammiferi (metà della fauna selvatica è sparita negli ultimi 40 anni), ma anche le specie direttamente collegate alla nostra sopravvivenza. Biodiversity International attraverso uno studio evidenzia come solo le colture di riso, grano e mais costituiscano più del 50 % del nostro nutrimento vegetale e che in generale il 75 % di ciò che mangiamo dipende solamente da 12 colture e cinque specie animali. E’ chiaro che abbiamo puntato su così poche specie non tanto perché sono più buone o nutrienti di altre, ma perché si adattano meglio di altre al sistema industriale e la sua filiera. Gli allevamenti intensivi hanno un prezzo molto alto: l’agricoltura contribuisce per il 24 % all’effetto serra ed è la più grande filiera consumatrice di acqua dolce sul pianeta. Campi messi a coltivazione e pascoli coprono già il 38% delle terre emerse, lasciando il 62 % delle specie animali a rischio a causa dello stravolgimento del proprio habitat. Le previsioni ci dicono che forse la produzione agricola, a causa del cambiamento climatico, calerà del 2% mentre la domanda salirà del 14%. Per fare un esempio, negli anni ’70 in USA le coltivazioni di mais subirono un crollo nella produzione a causa di una malattia e il problema fu risolto solo grazie ad una varietà di mais selvatico messicano sopravvissuta. Inoltre il risvolto sanitario negativo della iper industrializzazione del cibo è il consumo di junk food, che fa aumentare sempre di più sovrappeso e obesi, mentre due miliardi di persone non hanno un consumo adeguato delle vitamine essenziali e sali minerali. Un Indice di agrobiodiversità, che è stato di recente proposto, potrebbe portare ad una programmazione adeguata delle risorse da impiegare per un nutrimento solido e duraturo delle persone sul pianeta: investimenti e interventi mirati implementerebbero le colture miste, più resistenti a malattie e parassiti rispetto alle monocolture, che ovviamente limitano la biodiversità.

Inoltre dal 1950 al 1999 uno studio sui nutrienti di 43 colture ha osservato una diminuzione della presenza di proteine, calcio, ferro e acido ascorbico. Insomma bisognerebbe evitare di coltivare e mangiare sempre le stesse specie di vegetali e graminacee, favorendo invece la crescita di varie specie in colture miste, le quali sono più resistenti, più sane e alla portata di tutti.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.