Introduzione al libro “La pallida idea che abbiamo del mondo” di Domenico Ceravolo

Il titolo di questo lavoro sarebbe dovuto essere “Ipotesi di una Class action  culturale e politica sulle responsabilità dell’effetto serra”. Resterà comunque come sottotitolo. Ho rinunciato per timore che il lettore  estremizzasse, superficialmente e rapidamente,  la lettura processuale (sistemica o evolutiva che dir si voglia) degli eventi, che resta il punto fermo delle mie riflessioni. Questa tende alle cause terribilmente vere, talvolta invisibili, che influenzano le decisioni dell’uomo e che lo condizionano sempre, anche  a sua insaputa. Ciò potrebbe sembrare, a prima vista, volere circondare di troppe attenuanti i comportamenti dei protagonisti più diretti di questo evento così drammatico, che è il surriscaldamento planetario, quando è invece il tentativo di incardinare più nel profondo le responsabilità. Quelli, tanti, che vogliono l’uomo dotato di pieno, libero arbitrio e pertanto da chiamare ipso facto a rendere conto dei suoi peccati-reati, in realtà spostano, semplicemente e soltanto, l’asse dalla politica alla magistratura. Sia chiaro, in ogni caso, che la maturazione di una coscienza ambientale, sulla base di una maggiore conoscenza scientifica, va configurando, sempre di più e sempre meglio, sviluppi nella definizione di responsabilità giuridiche, sempre più stringenti. L’effetto serra però, come evento naturale gigantesco che introduce nella nostra storia quotidiana fattori che attentano alla sopravvivenza umana, più di ogni altro nel recente passato, impone il compito di affrontarlo socialmente e politicamente, andando oltre le analisi tradizionali, accrescendo queste di maggiore valore cognitivo. Impone di non affidarsi solo alle indignazioni episodiche e superficiali, dietro cui si nascondono connivenze consapevoli o sublimi ignoranze, e preoccuparsi molto di più delle cause reali, perché queste sono da abbordare, se si vogliono  conseguire i risultati voluti, piuttosto che fermarsi ai sintomi, come è avvenuto finora.

Naturalmente se si trattasse di una disputa a livello puramente “speculativo”, non comincerei nemmeno, ma mi conforta il fatto che l’argomento forte è la configurazione di una drammatica realtà che minaccia tutti, e che tutti, teoricamente, possono vedere e sentire. Voglio chiarire, come faccio sempre, che i risultati di una lettura processuale degli eventi non diverrebbero, ipso facto, verità politiche immediatamente collettive, perché pur sempre la sua penetrazione nelle menti soggiace a una dinamica processuale di resistenze determinate e storiche. Lo provano, in modo esemplare, le verità galileiane e darwiniane. Ma il cambiamento di visuale avrebbe l’effetto di un  forte catalizzatore, che avvierebbe una reazione culturale decisamente nuova e creativa. Una reazione più di “massa” che si affiancherebbe, per correggere, a quella corrente delle elites tecnocratiche.

Questa mia riflessione, di necessità, mi porta ad un duplice  approccio alla questione: dal basso, che sarebbe il più corretto e definitivo, che parte dalla “realtà oggettiva” per risalire in coerenza verso  considerazioni più generali; e dall’alto, secondo l’angolo visuale dominante che finora ha ignorato, di fatto, il surriscaldamento planetario. Se tutto si svolgesse per logica razionale, come si ritiene correntemente che avvengano le cose, bastarebbe  affidarsi al primo, sapendo che, o prima o dopo, tutti vedranno l’impatto dell’effetto serra e verranno così progressivamente a posizioni più adeguate alla grande sfida politica cui siamo chiamati. Quando, non si sa, ma verrebbero! Ma occorre fare i conti con una cultura dominante che ha già ignorato l’avvio di questo gigantesco processo e continua ad ignorarlo, lungo vari filoni ideologici che cercherò di identificare, almeno fra i maggiori. C’è dunque una lotta culturale che deve accompagnarsi alle scoperte indicate dall’evoluzione della realtà naturale. Nessuna illusione dunque che la configurazione di questo gigantesco processo perturbativo, che entra nella nostra vita, basti da solo per correggere la visuale con cui vediamo il mondo e per partire tutti, per la prima volta, dal basso, dai “ problemi concreti”, come si suol dire. Avverrebbe troppo tardi quando, secondo le preoccupazioni di molti scienziati, il drammatico evento avrà raggiunto la sua soglia devastante  ed irreversibile. Anzi sembra che le cose si stiano già “registrando” su questo asse formativo. In realtà dobbiamo dunque, al più presto, impegnarci a sciogliere gradualmente un viluppo culturale  estremamente intricato e intrigante.

Ho potuto constatare quanto sia arretrato il nostro sguardo politico, che non siamo stati “liberi” di ampliare, man mano che grandi eventi storici ci sono passati addosso. E qui ho capito l’importanza di “aggiungere” al pensiero tradizionale un coefficiente nuovo e decisivo. In altri tempi storici il fattore della realtà oggettiva, il mondo in cui viviamo biologicamente e socialmente, da inserire nella nostra visuale, sarebbe stato, come in effetti è stato, un affare di filosofia senza fine, per definire chi siamo noi e che cosa è la natura: un pensiero senza direzione di marcia verificabile.  Oggi però,  una circostanza perentoria, la prima catastrofe planetaria di origine antropica, ci sovrasta con prepotenza e c’impone, in tempi e luoghi determinati, di reagire politicamente con urgenza. Si definisce sempre meglio l’area del che fare.  L’iniziativa politica, che oggi è ingarbugliata in mille pensieri caduchi, deve trovare la via più breve verso l’obiettivo, che non è più, purtroppo, di impedire, in termini preventivi, la catastrofe , bensì di minimizzarne i costi in termini di sofferenze umane e sociali. Che, guardato sotto il profilo del rilancio di una nuova politica, da tutti invocata, è quanto di più umanitario e democratico si possa  immaginare. La politica non è tutto, ma quando si entra in una crisi così profonda che sgretola gli elementi di base su cui si costruisce il patto sociale, è da qui che bisogna partire, dando risposte che abbiano un “senso” di marcia, che attingano agli interessi vitali dell’umanità, quelli della sopravvivenza, con cui storicamente i nostri antenati si sono dovuti misurare più volte, in condizioni di arretratezza tecnico-culturale e con costi enormi che ancora non conosciamo del tutto.  E’ una condizione che potrà avviare “istintivi” comportamenti sociali difensivi di milioni di persone, che costituiscono una forza con cui dovranno fare i conti anche i potentati dell’economia e della comunicazione. Non milioni di persone smarriti nella propria individualità e arroganza, ma dotati di un bisogno ritrovato di solidarietà per affrontare un pericolo nuovo e fortemente minaccioso.