Aree protette: un terzo a rischio per l’azione umana

Uno studio pubblicato sulla rivista Science rivela come le aree protette su carta siano in realtà sottoposte a forti pressioni a causa dell’intervento umano. Le aree tutelate formalmente rischiano di perdere la loro biodiversità per prossimità ad autostrade, allevamenti intensivi ed aree urbanizzate; come al solito è difficile mantenere oasi incontaminate a fronte di un mondo fortemente antropizzato. Il 15% della nostra Terra è formalmente sottoposto a vari livelli di tutela, che in ogni caso (sia nei casi più restrittivi che quelli più morbidi), significa la salvaguardia degli ecosistemi e della biodiversità originaria di un luogo. Ma qual è la verità dietro alle carte? Gli scienziati hanno esaminato la Human Footprint, la nostra vera impronta su queste aree. Hanno tenuto in conto di infrastrutture, centri abitati, costruzioni, allevamenti e corsi d’acqua sfruttati. Gli autori del paper sono arrivati alla conclusione che l’essere umano sta esercitando una pressione deleteria su ben il 32,8% delle aree protette (per capirci l’estensione è pari ai due terzi della Cina). Quelle che se la cavano meglio sono le aree protette in luoghi remoti, mentre quelle che si trovano in Asia, Europa ed Africa sono più a rischio per la prossimità dell’essere umano. Esempi virtuosi di gestione delle aree tutelate si trovano ad esempio in Cambogia, Bolivia ed Ecuador; è inoltre documentato che dove le regole sulla biodiversità sono più stringenti le cose funzionano meglio. Certo non si può prescindere anche da buoni finanziamenti ed è per questo che i ricercatori ed esperti devono farsi sentire maggiormente dai governi, perché anche dove le cose vanno peggio, c’è ancora speranza.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Giallo nell’atmosfera

I gas che distruggono l’ozono nell’atmosfera sono stati banditi dal Protocollo di Montreal del 1987 e dal 2010 non esiste fonte documentata sulla Terra di clorofluorocarburi. Eppure dal 2013 si registrano nuove, misteriose emissioni di questo gas, di cui non si conosce la provenienza. E’ la NOAA a documentare questa strana attività nell’atmosfera: dalla scoperta del buco nell’ozono nel 1985, si è puntato subito il dito contro i clorofluorocarburi, presto sostituiti da altre sostanze chimiche e messi al bando dai 200 paesi firmatari del Protocollo, uno degli esempi più virtuosi nella lotta alla distruzione dell’ambiente. Ora però sono state registrate 13mila tonnellate di triclorofluorometano nell’atmosfera e non si capisce chi o cosa possa averle riversate, riaprendo il problema del buco nell’ozono: un sospettato c’è già per i ricercatori americani, ovvero una misteriosa fabbrica collocata tra Cina e Mongolia. Ma sarà difficile arrivare alla verità per gli scienziati/detective, in quanto potrebbe anche trattarsi di una reazione chimica non voluta.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Servono 70 miliardi per diventare carbon free nel 2030

Per raggiungere il traguardo prefissato dalla Strategia energetica nazionale, ovvero di diventare un paese carbon-free e col 55% di utilizzo di energia rinnovabile entro il 2030, sono necessari all’Italia 70 miliardi di investimenti. Il dato è contenuto in un rapporto dell’Osservatorio italiano per le energie rinnovabili. La SEN si propone l’obiettivo di rispettare l’Accordo di Parigi, garantendo allo stesso tempo il fabbisogno energetico e contenendo i costi dell’elettricità per famiglie e imprese. La SEN però non tiene in conto, come sottolinea l’OIR, della possibilità di rinnovare impianti già esistenti per non consumare troppo suolo. Servono 5 gigawatt all’anno di installazioni eoliche e fotovoltaiche l’anno per raggiungere quel 55%: per ora un traguardo lontanissimo perché l’attuale tasso è poco più di un sesto di quello contenuto nel programma. Il “business as usual” non può andare bene per raggiungere gli obiettivi e questo è chiaro a tutti; servono azioni più incisive per aumentare le energie rinnovabili, ammodernando il parco esistente (riqualificando impianti desueti), senza aumentare le bollette. Il Sen stesso pare sottostimare di parecchio la cifra effettivamente necessaria per realizzare tutto questo (37 miliardi contro i 70 calcolati dall’OIR) al netto di infrastrutture e interventi di manutenzione.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

130 vittime in India per tempeste tropicali

L’India è stata ancora una volta colpita da un’intensa tempesta di acqua e sabbia riversatasi sul nord ed est del paese, fino a raggiungere a sud il Kerala, trascinando con sé case distrutte e vite umane. E’ stata colpita Delhi ma anche le zone rurali dell’Uttar Pradesh e dell’Andra Pradesh; ci sono stati più morti nelle scorse cinque settimane che in tutto il 2017. Uccisi da oggetti volanti, travolti dalle macerie e dalle inondazioni. Gli scienziati ammettono l’eccezionalità nella distribuzione nel tempo di questi eventi atmosferici (si sono verificati a distanza molto ravvicinata quest’anno) e nell’intensità (i venti di pioggia dal Mediterraneo sommati alla siccità precedente alla stagione dei monsoni hanno creato l’impatto devastante).

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Un iceberg per Città del Capo

Nick Sloane, coordinatore delle operazioni di recupero della Costa Concordia al largo dell’isola del Giglio e “salvage master” di fama internazionale, ha proposto di trasportare un iceberg per 1200 miglia dall’Antartide alle coste sudafricane per risolvere l’emergenza idrica a Città del Capo, a cui mancano 100 litri al giorno per coprire il fabbisogno della popolazione. Attualmente sta lavorando con un team di glaciologi ed esperti per valutare la fattibilità dell’intervento, che presenta non poche difficoltà: solo una piccolissima percentuale di iceberg è in posizione favorevole per un trasporto e durante quest’ultimo l’iceberg potrebbe sciogliersi per il 30%. Per non parlare di come rendere l’acqua dell’iceberg potabile e portarlo alla terraferma. Certo l’intervento sarebbe decisamente più economico e meno impattante di una desalinizzazione dell’acqua marina e l’iceberg potrebbe essere conservato solo in caso di necessità. Purtroppo Città del Capo non è l’unico punto colpito dalla terribile siccità che ha interessato il Sudafrica negli ultimi anni e difficilmente la soluzione potrà accontentare tutti.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.