Il riscaldamento globale e i negazionisti

Il National Climatic Data Center americano ha appurato che il 2018 è stato il quarto anno più caldo mai registrato dal 1880 e che le temperature medie dell’anno sono aumentate di 1,06 gradi centigradi dal periodo 1880-1920, con un significativo aumento negli ultimi anni. Il Polo Nord e il Polo Sud (specialmente il primo) stanno perdendo progressivamente superficie ghiacciata e da inizio secolo i ghiacciai delle maggiori catene montuose del mondo (Himalaya, Ande, Alpi, Alaska, Kilimangiaro..) hanno visto assottigliarsi tra l’85% e il 100% dei propri ghiacci. Il livello dei mari si alza progressivamente, portando acqua salata nei fiumi e rovinando i raccolti, che risultano sempre più scarsi in tutti i continenti, dall’America all’Asia. In Italia Coldiretti ha stimato una perdita del 10% quest’anno rispetto all’anno scorso. Le temperature alte causando lo scioglimento dei ghiacciai, fanno sì che l’approvvigionamento idrico nelle stagioni calde sia sempre più difficoltoso. Questo è il quadro con cui ci confrontiamo oggi.

Le istituzioni hanno iniziato ad accorgersi che qualcosa non andava verso la fine degli anni ’80, quando a Ginevra fu fondato l’IPCC, che riunisce tutt’oggi esperti da ben 42 paesi del mondo per studiare il riscaldamento globale e i suoi effetti sugli ecosistemi e l’uomo: il verdetto unanime che scaturì ben presto dagli studi è che il riscaldamento globale è dovuto alle attività umane. I principali imputati sono: utilizzo del carbone fossile, allevamenti intensivi di bestiame (e conseguente rilascio del gas serra più potente, il metano, oltre che di anidride carbonica), deforestazione e decomposizione di rifiuti. Oggi siamo arrivati a superare le 410 parti per milione di CO2 nell’atmosfera, cosa che avviene per la prima volta da ben 800.000 anni (le condizioni atmosferiche antiche si deducono dallo studio dei vegetali e carotaggi nei ghiacci). Negli anni ’50 erano 310, ovvero un quarto in meno di oggi.

Lo scenario più catastrofico previsto dall’IPCC vede, entro il 2100, la temperatura aumentare dai 6 ai 12 gradi, con un conseguente scioglimento dei ghiacci che porterebbe il mare ad innalzarsi di 7,5 m, inondando le abitazioni e le città di un terzo della popolazione umana. La produzione di cibo rallenterebbe e molte aree si ridurrebbero a deserti.

In Italia la Pianura Padana, col suo fiume Po, è una delle zone più produttive a livello agricolo (35% della produzione nazionale e 40% del PIL del settore) e una delle zone che ha più sofferto delle estati aride e roventi del 2003, 2007, 2012 e 2017. Gli agricoltori spesso hanno dovuto scegliere quali coltivazioni irrigare e quali abbandonare al loro destino per scarsità d’acqua. L’altro lato della medaglia del riscaldamento globale sono i temporali improvvisi e nubifragi, che spesso sono causa di frane e piene straordinarie dei fiumi, che esondano con grande danno per cose e persone. Dal 2013 al 2016, ben 18 regioni italiane hanno sofferto di questi fenomeni estremi (per un totale di 102 episodi tra frane e allagamenti).

E non ci sono solo i fiumi a preoccupare: c’è il nostro Mediterraneo, più basso di 20 cm rispetto all’Oceano Atlantico e di 50 rispetto al Mar Nero. Dallo stretto di Gibilterra e dai Dardanelli avviene un continuo travaso nel Mediterraneo, aggravato dallo scioglimento dei ghiacciai. Uno studio del 2018 dell’Enea e del MIT di Boston dice che nel 2100 ben 5500 km quadrati di costa italiana saranno sommersi dalle acque e che negli ultimi 200 anni c’è stata un’accelerazione straordinaria nell’innalzamento dei mari (con gli ultimi due decenni ad un ritmo di 3,4 mm annui). In Italia rischiamo di vedere sommerse aree di turismo e bellezza come Venezia, Trieste, Ravenna, la Versilia, l’Isola d’Elba e le Isole Eolie, solo per fare alcuni esempi.

Per scongiurare tutto questo, l’IPCC in collaborazione con studiosi e università, ha indicato il 2035 come punto di non ritorno per centrare l’obiettivo dell’accordo di Parigi (contenere la temperatura entro i 2 gradi di aumento rispetto all’era preindustriale). Le rinnovabili dovranno marciare al +2% all’anno e il carbone fossile dovrà andare definitivamente in pensione. Ma come fare? Le risposte in teoria le abbiamo: efficientamento energetico delle abitazioni, chiusura delle centrali a carbone, riduzione dell’allevamento intensivo degli animali e auto elettriche. Ma sappiamo che i governi non sempre mantengono le promesse e abbandonare un vecchio modello di economia consolidato per uno nuovo è molto difficile. Specialmente se si mettono di traverso i negazionisti, come la Global Warming Policy Foundation, fondata nel 2009 da un ex ministro inglese e sostenuta da politici, esponenti del clero e personalità legate all’industria dei combustibili fossili. I negazionisti sostengono che il pianeta stia semplicemente attraversando un periodo di riscaldamento ciclico come ve ne sono stati altri in passato sulla Terra, e che le attività umane siano del tutto ininfluenti. Nell’ultimo milione di anni si sono alternati periodi glaciali ed interglaciali a distanza di circa 100.000 anni. L’ultima glaciazione si è conclusa 10.000 anni fa, dunque noi viviamo in un periodo interglaciale favorito dall’effetto serra naturale.

La loro teoria della ciclicità del clima tuttavia non è supportata da determinati dati: se fosse tutta colpa del Sole, non avremmo temperature aumentate di più nell’atmosfera medio bassa che non in quella alta, più di notte che di giorno, più in inverno che in estate e più a latitudini alte che non basse. Radiazioni solari, raggi cosmici e variazioni dell’orbita terrestre sono costanti imprevedibili e ancora poco conosciute. Sta di fatto che nelle alterazioni climatiche c’è lo zampino umano e a Katowice in Polonia, il prossimo dicembre, i firmatari dell’accordo di Parigi si confronteranno sui risultati dei primi 3 anni, senza gli USA stavolta, in quanto Trump sembra convinto che il riscaldamento globale sia una bufala architettata dai cinesi per danneggiare l’industria americana.

DA “IL CORRIERE DELLA SERA”

A cura di M.B.

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