Dal Giappone agli USA: lo tsunami del 2011 ha trascinato 600 specie attraverso il Pacifico

Ben 289 specie marine sono state trascinate per attraverso l’Oceano Pacifico dallo tsunami che si verificò in Giappone nel marzo 2011: tra di esse vi sono telline, anemoni, meduse, stelle di mare.

Una vera e propria migrazione di massa, mai vista nella storia secondo lo scienziato James T. Carlton del Williams College in USA, che ha condotto in collaborazione con l’Università dell’Oregon una ricerca sulle specie marine giapponesi presenti nel mare della costa dell’Oregon.

Gli organismi marini hanno sostanzialmente viaggiato “a cavallo” di pezzi di plastica, bottiglie e residui di barche sull’onda dello tsunami, e sono state trascinate verso un nuovo habitat molto lontano da quello originario: il 20% delle specie studiate sembra siano riuscite a riprodursi, ma è ancora presto per dire come se la caveranno a lungo termine nel nuovo ambiente.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

In Italia l’inquinamento uccide di più che in altre nazioni europee

Nonostante il leggero miglioramento (generalizzato) riscontrato nella qualità dell’aria negli ultimi anni, l’Italia resta uno dei paesi in Europa in cui si contano più decessi per inquinamento.

Un recente report elaborato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile con Enea e Ferrovie, ha riscontrato come l’Italia, con 90.000 morti premature, 1500 decessi per milione di abitanti, batte grandi paesi europei come Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna. Sappiamo da tempo che la qualità dell’aria peggiore è quella in Val Padana, ma anche le aree metropolitane di Milano, Roma, Firenze, Napoli e Taranto presentano situazioni critiche. La responsabilità va cercata non solo nel traffico automobilistico e nei motori diesel, ma anche nell’industria, nell’agricoltura e nel riscaldamento (a biomasse legnose, pellet e tradizionali). In Europa si contano 500.000 morti premature l’anno a causa dell’inquinamento atmosferico, 20 volte il numero di vittime di incidenti stradali (e il peso stimato sul Pil europeo del deterioramento della salute per lo stesso problema è pari al 2-6%). In Italia tuttavia i dati sono peggiori che altrove, abbiamo infatti un costante record negativo per il particolato e il biossido di azoto e i miglioramenti degli ultimi anni sono troppo limitati rispetto all’obiettivo fissato nel 2030 per la riduzione degli inquinanti atmosferici.

Le biomasse legnose, dato che forse ci sorprenderà, sono responsabili del 99 % del particolato nelle aree urbane residenziali (stufe manuali e caminetti aperti per il 90 % mentre i più recenti caminetti chiusi e stufe a ricarica automatica per il 9 %). La produzione agricola con i suoi fertilizzanti e la zootecnia, l’industria, la generazione elettrica e lo smaltimento rifiuti sono invece responsabili dell’inquinamento atmosferico extraurbano. Il rapporto della Fondazione per lo sviluppo sostenibile propone un piano che comprende la riduzione di auto private in città, con conseguente implementazione del trasporto pubblico, riqualificazione di edifici pubblici e privati, limitazione delle biomasse per il riscaldamento domestico, e il controllo delle emissioni in agricoltura e nell’industria. Tutte proposte che finora il governo non ha preso seriamente in considerazione, o comunque in modo molto tiepido e limitato.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

L’estinzione di massa minaccia il nostro cibo

La sesta estinzione di massa innescata dal cambiamento climatico non solo rischia di far sparire la fauna selvatica che associamo alla bellezza della natura, i grandi mammiferi (metà della fauna selvatica è sparita negli ultimi 40 anni), ma anche le specie direttamente collegate alla nostra sopravvivenza. Biodiversity International attraverso uno studio evidenzia come solo le colture di riso, grano e mais costituiscano più del 50 % del nostro nutrimento vegetale e che in generale il 75 % di ciò che mangiamo dipende solamente da 12 colture e cinque specie animali. E’ chiaro che abbiamo puntato su così poche specie non tanto perché sono più buone o nutrienti di altre, ma perché si adattano meglio di altre al sistema industriale e la sua filiera. Gli allevamenti intensivi hanno un prezzo molto alto: l’agricoltura contribuisce per il 24 % all’effetto serra ed è la più grande filiera consumatrice di acqua dolce sul pianeta. Campi messi a coltivazione e pascoli coprono già il 38% delle terre emerse, lasciando il 62 % delle specie animali a rischio a causa dello stravolgimento del proprio habitat. Le previsioni ci dicono che forse la produzione agricola, a causa del cambiamento climatico, calerà del 2% mentre la domanda salirà del 14%. Per fare un esempio, negli anni ’70 in USA le coltivazioni di mais subirono un crollo nella produzione a causa di una malattia e il problema fu risolto solo grazie ad una varietà di mais selvatico messicano sopravvissuta. Inoltre il risvolto sanitario negativo della iper industrializzazione del cibo è il consumo di junk food, che fa aumentare sempre di più sovrappeso e obesi, mentre due miliardi di persone non hanno un consumo adeguato delle vitamine essenziali e sali minerali. Un Indice di agrobiodiversità, che è stato di recente proposto, potrebbe portare ad una programmazione adeguata delle risorse da impiegare per un nutrimento solido e duraturo delle persone sul pianeta: investimenti e interventi mirati implementerebbero le colture miste, più resistenti a malattie e parassiti rispetto alle monocolture, che ovviamente limitano la biodiversità.

Inoltre dal 1950 al 1999 uno studio sui nutrienti di 43 colture ha osservato una diminuzione della presenza di proteine, calcio, ferro e acido ascorbico. Insomma bisognerebbe evitare di coltivare e mangiare sempre le stesse specie di vegetali e graminacee, favorendo invece la crescita di varie specie in colture miste, le quali sono più resistenti, più sane e alla portata di tutti.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Appello al Governo Italiano di un gruppo di docenti e ricercatori dell’Università di Bologna in occasione di una conferenza sul cambiamento climatico

Appello al Governo

Conferenza Nazionale sul Cambiamento Climatico

Siamo un gruppo di docenti e ricercatori dell’Università e dei Centri di ricerca di Bologna che sentono il dovere di dare un contributo, attraverso la condivisione di conoscenze e informazioni scientificamente corrette, per superare le difficoltà poste dal cambiamento climatico nel nostro Paese.

Per questo motivo abbiamo deciso di inviare una lettera aperta al Presidente del Consiglio ed ai Ministri competenti e di lanciare un appello al Governo affinché i problemi dovuti al cambiamento climatico vengano urgentemente discussi in una Conferenza Nazionale al fine di mettere in atto appropriati interventi di mitigazione e di adattamento.

Dopo mesi di siccità, temperature ben più alte della media stagionale, ghiacciai che si sciolgono, foreste che vanno in fumo, chi può dubitare che il cambiamento climatico sia già oggi un problema che colpisce duramente l’Italia? Il nostro Paese, collocato in mezzo al Mediterraneo, è uno dei punti più critici del pianeta in termini di cambiamento climatico, fenomeno globale dovuto principalmente alle emissioni di gas serra causate dalle attività umane.

 L’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change) prevede  un aumento in frequenza ed intensità degli eventi estremi e incrementi della temperatura media per fine secolo ben superiori al valore di 2°C, obiettivo degli accordi di Parigi.

Non è certo da oggi che si parla di cambiamento climatico in atto nel nostro Paese, ma solo un governo, nell’ormai lontano 2007, ha pensato di dedicare a questo tema strategico una Conferenza Nazionale. Da allora la situazione è molto peggiorata ma, paradossalmente, si fa sempre meno per porvi rimedio. Eppure non c’è settore economico e sociale che non sia colpito (se non addirittura sconvolto) dal cambiamento climatico: l’agricoltura, fortemente danneggiata dalla siccità; la sanità, che deve far fronte agli effetti diretti (canicola, inquinamento atmosferico) e indiretti (nuovi vettori di malattie) che mettono in pericolo la salute della popolazione; il turismo invernale, che non può più contare sulla neve naturale, e quello estivo, danneggiato dalla erosione delle spiagge; il territorio, degradato da disastri idrogeologici (frane, alluvioni) che hanno forti conseguenze sulla abitabilità e sulla viabilità; gli ecosistemi, devastati dal cambiamento climatico; le città che, come Roma, hanno gravi difficoltà di approvvigionamento idrico.

In altri paesi c’è una forte presa di coscienza sul problema del cambiamento climatico. Ad esempio in Germania un recente sondaggio pre-elettorale ha mostrato che circa il 71% degli interpellati è preoccupato dal cambiamento climatico più che dalla possibilità che si verifichino nuovi attacchi terroristici (63%). In Francia, la notizia che le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno sono già state tutte consumate prima del 2 agosto (Earth overshoot day) è stata riportata in prima pagina da Le Monde e commentata in un lungo video dal ministro della Transition écologique et solidaire, Nicolas Hulot.

Come da molto tempo affermano gli scienziati e come è stato unanimemente riconosciuto nella Conferenza di Parigi del 2015, il cambiamento climatico è principalmente causato dall’uso dei combustibili fossili che producono anidride carbonica e altri gas serra. In Italia, in media ogni persona ogni anno provoca l’emissione di gas serra per una quantità equivalente a sette tonnellate di anidride carbonica.

Gran parte di queste emissioni non possono essere addebitate direttamente ai singoli cittadini poiché sono l’inevitabile conseguenza di decisioni politico-amministrative errate, a vari livelli. Ad esempio: le scelte urbanistiche (uso del territorio e localizzazione dei servizi) da parte dei comuni e delle regioni; le decisioni prese in tema di mobilità locale, regionale e nazionale che, direttamente o indirettamente, favoriscono l’uso dell’auto; gli incentivi, diretti ed indiretti, alla ricerca, estrazione, trasporto (spesso da  regioni molto remote) e commercio dei combustibili fossili; la costruzione di infrastrutture superflue o addirittura inutili (autostrade, gasdotti, supermercati); la mancanza di una politica che imponga o almeno privilegi il trasporto merci su rotaia; le limitazioni e gli ostacoli burocratici che frenano lo sviluppo delle energie rinnovabili; gli incentivi alla produzione e consumo di carne; la mancanza di una politica culturale che incoraggi la riduzione dei consumi e l’eliminazione degli sprechi.

Nel nostro Paese sembra che molti settori della politica, dell’economia e del’informazione abbiano gli occhi rivolti al passato e siano quindi incapaci di capire che oggi siamo di fronte a problemi ineludibili con cui è necessario e urgente confrontarsi: le risorse del pianeta sono limitate e limitato è anche lo spazio in cui collocare i rifiuti, l’uso dei combustibili fossili va rapidamente abbandonato e altrettanto rapidamente è necessario sviluppare le energie rinnovabili.

Se non si tengono ferme queste realtà, si finisce per procedere con decisioni scollegate e perfino contrastanti che non portano ad alcun risultato. Ad esempio, si afferma di voler diminuire l’inquinamento e le emissioni di anidride carbonica e poi ci si rallegra perché aumenta il PIL grazie alle vendita di un numero di automobili maggiore del previsto. Si fanno convegni sull’economia circolare e sulla sostenibilità ecologica e sociale, ma si continuano a progettare discariche e inceneritori, si chiudono le fabbriche di autobus e si incoraggia la produzione di SUV lussuosi e potenti, vere icone del consumismo e delle disuguaglianze cha a parole tutti dicono di voler combattere. Ci si ostina ad estrarre dal nostro suolo e dai nostri mari quantità marginali di combustibili fossili con l’impiego di un numero sempre minore di persone e si frena lo sviluppo delle energie rinnovabili capaci di portare molta occupazione nel settore manifatturiero. Se puntassimo seriamente sulla messa in atto di una politica di mitigazione e adattamento climatico avremmo grandi benefici: aumento dell’occupazione, minori costi per emergenze e calamità naturali, minori spese sanitarie e un miglioramento nella bilancia commerciale (minori importazioni di combustibili fossili).

Nella Strategia Energetica Nazionale e nei piani di sviluppo dell’ENI si parla  della necessità di passare dall’uso dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili, ma questa transizione è collocata in un futuro non ben definito e comunque lontano, che sarà possibile raggiungere, si dice, solo aumentando il consumo di metano. Si parla anche della necessità di sviluppare la produzione di biocombustibili, ignorando che nel settore dei trasporti si va verso un mondo “elettrico” perché l’efficienza di conversione dei fotoni del sole tramite la filiera che dal fotovoltaico porta alle auto elettriche è almeno 50 volte maggiore dell’efficienza della filiera basata sulla produzione e uso di biocombustibili. Nel frattempo, mentre Volkswagen adotta lo slogan “Think New” e lancia auto e miniautobus elettrici, osserviamo increduli che quella che era la “nostra” grande industria automobilistica (FCA) si ostina a produrre automobili tradizionali che fra non molti anni saranno fuori mercato.

Bisogna anche rendersi conto che la transizione dall’uso dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili, pur essendo una condizione necessaria, non è di per sé sufficiente per mitigare il cambiamento climatico e tanto meno per costruire un futuro sostenibile. E’ indispensabile anche ridurre il consumo di energia e di ogni altra risorsa, particolarmente nei paesi sviluppati come il nostro dove regna lo spreco. Attualmente, un cittadino europeo usa in media 6.000 watt di potenza, mentre negli anni ’60 la potenza pro capite usata in Europa era di 2000 watt per persona, corrispondenti ad una quantità di energia sufficiente per soddisfare tutte le necessità. La Svizzera nel maggio scorso ha approvato con un referendum un piano energetico per ridurre i consumi pro capite da 6000 watt attuali a 2000 watt entro il 2050. Ci piaccia o no, anche noi saremo chiamati a mettere in atto misure di questo tipo. E’ anche importante capire che la riduzione dei consumi non può essere basata solo su un aumento di efficienza delle “cose” che usiamo (automobili, condizionatori, lampade ecc.), perché in tal caso può verificarsi l’effetto rebound (rimbalzo): una persona quando risparmia denaro per l’aumento di efficienza delle cose che usa è portata a spendere quel risparmio in altri modi, causando ulteriori consumi. Prima di puntare su aumenti di efficienza delle “cose” che usiamo, è necessario diffondere una cultura della sufficienza per far sì che le persone diventino consapevoli dei vantaggi di vivere in un modo sobrio, riducendo l’uso delle “cose” stesse. La sobrietà è uno degli elementi fondamentali per il successo di adeguate politiche di mitigazione e adattamento climatico.

Chiediamo ai colleghi delle Università e Centri di ricerca italiani e a tutti i cittadini che condividono quanto sopra riportato di firmare questo appello sul sito energiaperlitalia per stimolare il Governo ad organizzare una Conferenza Nazionale sul cambiamento climatico e a mettere in atto i provvedimenti necessari.

Il Comitato Promotore

Greenpeace: la foresta boreale si sta esaurendo per colpa dei fazzoletti

Il documento presentato da Greenpeace “Wiping out the boreal”, parla di come la foresta boreale sia in serio pericolo a causa delle deforestazioni attuate per soddisfare le ordinazioni sempre maggiori della Essity, ovvero la più grande azienda europea produttrice di fazzoletti di carta, asciugatutto, tovaglioli e carta igienica (se ne consumano nove chili pro capite l’anno in Italia). Per produrre materiale usa e getta si stanno abbattendo foreste millenarie, foreste vergini che hanno un valore inestimabile di bellezza e biodiversità. Le grandi foreste del Nord costituiscono un terzo delle foreste rimaste sulla Terra, eppure solo il 3 % di esse è area protetta; con le loro torbiere e permafrost (ghiaccio perenne) sono il più grande deposito di carbonio tra gli ecosistemi del nostro pianeta, fondamentali dunque per poter fronteggiare il cambiamento climatico. Essity, il leader nelle produzioni di “tissue”, si procura la polpa di cellulosa delle foreste boreali dalla Sca, che lavora nel settore forestale ma che fa parte dello stesso gruppo di Essity. La Sca sostituisce gli alberi tagliati per piantare dei pini non autoctoni, che alterano l’ecosistema e minacciano la sopravvivenza delle renne, che fanno fatica a cibarsi. Le renne a loro volta sono alla base della sussistenza del popolo Sami, che come attività principale alleva questi animali. I Sami si sono già mobilitati in Svezia per protestare contro lo sfruttamento del loro territorio, e a sua volta Greenpeace chiede a Essity di eliminare dalla propria filiera coloro che distruggono il patrimonio delle foreste boreali, un danno terribile operato anche a beneficio di coloro che operano prospezioni minerarie.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.