La plastica invade il Mare Nostrum

Il Mediterraneo rappresenta solo l’1% delle acque internazionali, ma ospita il 7% delle microplastiche presenti sul pianeta. Il 95% dei rifiuti che si trovano in esso sono di plastica e una tartaruga su due e un capodoglio su tre muore a causa dei polimeri (i veleni) che ingerisce attraverso le microplastiche, mentre il 18% di tonni e pesci spada del Mediterraneo del sud presentano rifiuti di plastica nello stomaco. Salute e biodiversità sono gli ambiti più a rischio, ma anche turismo e pesca ci rimetteranno se cittadini e istituzioni non lavorano in sinergia per arginare questo enorme problema. L’Europa è la seconda produttrice di rifiuti plastici con 27 milioni di tonnellate l’anno, di cui solo un terzo riciclato, mentre l’Italia è il terzo paese mediterraneo a disperdere più detriti (90 tonnellate al giorno). Una situazione grave, che ci fa rimettere 62 milioni di euro l’anno in termini turistico-economici. Servirebbe un accordo internazionale giuridicamente vincolante per impegnare i paesi alla riduzione della dispersione delle plastiche nelle acque: dopo la decisione dell’Europa di bandire cotton fioc e stoviglie in plastica oltre ad altri oggetti monouso, bisognerebbe attivare un costante monitoraggio e responsabilizzare le industrie ad un corretto smaltimento. Come cittadini oggi possiamo impegnarci cercando di limitare l’uso di imballaggi e scegliendo materiali biodegradabili per le confezioni che utilizziamo, oltre ad impegnarci nel tenere pulite le nostre spiagge.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

L’inquinamento colpisce le radici degli alberi

Secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Nature” e portato avanti dall’Imperial College of London in collaborazione con i Royal Botanic Gardens, non è solo l’aria a fare le spese dell’emissione di gas nocivi, ma anche il sottosuolo ed i suoi abitanti. In particolare, lo studio si concentra sui funghi micorizzici che abitano le radici degli alberi e che danno loro nutrimento: tra questi microrganismi e gli alberi c’è un vero e proprio rapporto simbiotico che ora è messo a rischio dall’inquinamento. I funghi sostanzialmente “prendono” il carbonio dalle piante ed in cambio rilasciano sostanze come fosforo, azoto e potassio, importanti per il nutrimento degli alberi. Gli scienziati hanno analizzato per ben 10 anni 40.000 campioni di radici in 20 paesi europei, prendendo in esame specie di alberi come il faggio, la quercia, l’abete, ecc. e hanno riscontrato che le preziose colonie fungine hanno subito un forte ridimensionamento a causa dell’inquinamento. Si è ipotizzato che lo stato di deperimento (foglie scolorite o assenti ad esempio) degli alberi nelle nostre aree urbane possa essere ricondotto al cattivo stato di salute dei funghi. La loro funzione è talmente importante che se l’inquinamento dovesse continuare a questi livelli, distruggendo le colonie, potremmo ritrovarci entro poco tempo senza foreste. Gli studiosi sottolineano come azoto ed altre sostanze, a concentrazioni troppo alte, possano essere altamente nocive per i funghi e che dunque un abbassamento dei livelli massimi di inquinamento possa fare la differenza in Europa, accompagnato ad un attento monitoraggio.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Mercurio e DDT rilasciati dalla plastica in mare

In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani 2017, è stato presentato uno studio di Legambiente in collaborazione con l’Università di Siena, che dimostra come i rischi dell’accumulo di plastica nei mari non siano solo legati alle conseguenze sulla fauna, ma anche alle sostanze tossiche rilasciate.

Organo-clorurati come il DDT e il mercurio sono le sostanze riscontrate maggiormente dallo studio sui rifiuti galleggianti presenti nei nostri mari, quali buste e teli di plastica. I contaminanti sono purtroppo stati individuati nella totalità di campioni analizzati, sebbene in diversa concentrazione a seconda delle aree interessate e del grado di invecchiamento del rifiuto.

Chiaramente il maggiore pericolo è dato dal fatto che le sostanze tossiche sono entrate a far parte dell’ecosistema marino e quindi della catena alimentare.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Fuggire da un disastro ambientale

Milon, nato e vissuto a Dacca, ha dovuto abbandonare il Bangladesh a 20 anni a causa delle incessanti piogge e uragani che si sono abbattuti sulle terre della sua famiglia, che ormai faticava a procurarsi da mangiare dal suolo tramutato in fango. Milon ora si trova all’Aquila, dove ha ottenuto dal tribunale della stessa la protezione umanitaria per motivi ambientali: la sua povertà è stata causata dai cambiamenti climatici e dai fenomeni di deforestazione e land grabbing nel suo paese d’origine. Spesso nel benestante Occidente ci illudiamo che le disgrazie altrui non ci riguardino, che sono fenomeni lontani, che non ci toccheranno. In realtà le previsioni ci dicono tutto il contrario. Certo i primi ad essere colpiti, e che già stanno subendo le conseguenze del cambiamento climatico sono i paesi sottosviluppati, dai quali partono sempre più persone in fuga da disastri naturali e miseria. I rifugiati nel mondo secondo l’UNHCR sono 14-15 milioni, di cui 3 milioni e 100.000 in Europa. Dei profughi ambientali si parla ancora poco, ma entro il 2050 ci saranno 200-250 milioni di profughi climatici (una media di 6 milioni l’anno), con conseguenti problemi di sradicamento dalla propria terra natale e difficoltà di adattamento. Bisogna dire che lo sfruttamento delle risorse naturali e la ricerca di combustibili fossili sono delle importanti concause delle migrazioni, in quanto alcune multinazionali costringono gli abitanti locali ad abbandonare le loro terre. La questione dei rifugiati ambientali e il loro status è attualmente in discussione presso la Commissione Europea, mentre l’immigrazione è un tema sempre più caldo a livello internazionale. Se potessimo utilizzare esclusivamente o quasi energia rinnovabile, ci sarebbe una riduzione drastica degli spostamenti e delle catastrofi dovute all’effetto serra. Oltre alla responsabilità enorme delle aziende che utilizzano combustibili fossili c’è anche la questione dell’allevamento intensivo, dell’agricoltura e della deforestazione. Bisogna impegnarsi come cittadini ed istituzioni a contrastare su tutti i fronti il business senza scrupoli di coloro che sfruttano il cambiamento climatico per avvantaggiare le proprie aziende, distruggendo così ulteriormente il nostro Pianeta; molte aziende petrolifere si stanno attrezzando infatti per andare a trivellare dove il ghiaccio si è sciolto, nell’Artico. Il cambiamento climatico colpisce noi tutti, a tutte le latitudini, ripercuotendosi sul tessuto socio-economico con danni incalcolabili. Già la siccità (pensiamo anche all’Italia, la cui agricoltura è finita in ginocchio nel 2017) e le alluvioni hanno causato ripercussioni sull’economia dei paesi occidentali e la vita di coloro che ne sono stati coinvolti direttamente; in Asia ormai si fronteggiano molto spesso tifoni e alluvioni disastrose, che reclamano numerose vite. In futuro l’innalzamento delle acque dei mari diventerà un problema non solo per le isolette del Pacifico, ma anche per le nostre città, prima tra tutte Venezia. La questione dei rifugiati climatici e più in generale del cambiamento climatico non è affatto affare di qualcun altro: ci riguarda molto da vicino e bisogna agire in fretta.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

Niente carne e latticini per ridurre l’impatto sull’ambiente

Uno studio condotto dall’Università di Oxford e pubblicato su Science, ha appurato che un ridotto apporto di alimenti derivati dagli animali potrebbe essere parte della soluzione dei problemi ambientali della Terra. Innanzitutto, se riducessimo il consumo di prodotti latteo caseari e di manzo, il 75% dei terreni agricoli si libererebbe, dando respiro al suolo soffocato dall’allevamento intensivo e si potrebbe ricominciare a coltivare specie vegetali o graminacee cadute in disuso. Nello studio sono state coinvolte poco meno di 40.000 aziende agricole di 119 paesi, impegnate nella produzione dei 40 principali alimenti che troviamo sulle nostre tavole. Considerando i dati dell’intera filiera, è stato appurato che dal produttore al consumatore l’impatto ambientale, in alcuni casi, è spropositato. Bisogna pensare che carne e latticini forniscono solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine, ma utilizzano ben l’83% dei terreni agricoli e producono il 60% dei gas serra. L’impatto ambientale della produzione di carne e formaggi è di gran lunga superiore a quello dei vegetali (emettono 12 volte più anidride carbonica e utilizzano 50 volte più terreno). I costi ambientali del nostro consumo di carne e derivati sono enormi e secondo gli studiosi adottando una dieta vegana le emissioni si ridurrebbero del 73%. Quel che è certo è che un cambiamento di abitudini alimentari sarebbe più che auspicabile per la salute della Terra.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.