Allarme per l’erosione delle coste italiane

Negli anni ’80 i km di spiaggia in arretramento in Italia erano 600; oggi sono più che raddoppiati nonostante barriere di protezione poste al tempo della Commissione De Marchi per la difesa del suolo. Si può dire senza dubbio che la situazione è molto peggiorata anche a causa di questi interventi spot che hanno finito per aggravare il tutto, con costi enormi per il nostro paese, che si aggirano intorno ai 4,5 miliardi di euro. Molti sindaci hanno posto barriere in cemento e altre forme temporanee di protezione a puro scopo elettorale, senza capire che andavano spesso a danneggiare le spiagge vicine e i loro fragili equilibri naturali. Ad Ostia, ad esempio, gli interventi estemporanei tra 1990 e 2015 hanno fatto passare da 50.000 a 120.000 metri quadrati la parte di litorale soggetta ad erosione (con una spesa totale di 50 milioni di euro). Ma è solo un caso tra tanti. Gli interventi con sistemi di protezione rigidi sono fallimentari a detta dei geologi, infatti solo spostando la sabbia estratta da depositi marini si può sperare di arginare il problema (sistema già messo in atto a Copacabana e Miami ad esempio), non certo “murando” il mare. A parte i sistemi sbagliati per arginare l’erosione marina, c’è il problema dell’industrializzazione e urbanizzazione delle aree costiere che si espande a spese della difesa e la conservazione ambientale. Molti porti ed edifici di varia tipologia sono stati costruiti attuando un vero e proprio assalto al territorio; la cementificazione selvaggia con dighe, cave, strade e altre infrastrutture sta presentando il suo conto sul paesaggio ormai devastato dall’irresponsabilità di coloro che hanno costruito senza mai porsi il problema delle conseguenze sull’ambiente. Il cambiamento climatico inoltre sta portando l’innalzamento dei mari e molte spiagge entro fine secolo potrebbero sparire completamente ; per questo motivo è necessario ripensare in tempi rapidi il nostro rapporto col territorio e porre rimedio ai danni perpetrati sulle nostre coste spostando la sabbia e non cementificando ancora.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

Il “fracking” in Idaho causa sisma

Il “fracking”, una tecnica di estrazione del petrolio data dalla frantumazione delle rocce attraverso la pressione dell’acqua, ha causato in Idaho un sisma di magnitudo 5.3 con epicentro a 19 km a nord est di Georgetown. Fortunatamente non si sono registrati danni a cose o persone, ma gli scienziati avvertono che questa tecnica può potenzialmente causare forti terremoti.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

Il Mar Caspio sta evaporando

Il lago più grande del mondo sta evaporando a ritmo doppio rispetto agli anni ’70, a quanto si può osservare dalle foto satellitari della Nasa, e se non ci saranno ingenti apporti d’acqua attraverso piogge e fiumi (ad esempio dal Volga) la sua parte nord, quella meno profonda (meno di 5 metri), potrebbe sparire tra circa 75 anni. Le temperature sempre più alte degli ultimi anni hanno portato ad una discesa del livello dell’acqua di un metro e mezzo in soli 20 anni e attualmente si registra un calo in picchiata di 7 cm all’anno, una tendenza che non accenna a diminuire, anzi. Se dovesse prosciugarsi, come accadde col lago d’Aral (era il quarto più grande del mondo e nel 2014 il suo bacino orientale si è prosciugato) ci sarebbe un impatto devastante sull’ecosistema circostante e l’economia. Molti altri laghi nel mondo si sono o prosciugati del tutto (il lago Poopò in Bolivia nel 2016) oppure in parte (il lago Chad in Africa e svariati grandi laghi negli USA) a causa dell’evaporazione e di un cattivo sfruttamento delle acque.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

I disastri climatici colpiscono tre continenti

Il Sudest asiatico, gli USA e il Niger sono flagellati dalle alluvioni: a Mumbai le piogge torrenziali monsoniche sono le più intense mai registrate dal 2005 e un palazzo crollato ha sepolto 40 persone, mentre nel resto del paese le infrastrutture inadeguate e fatiscenti hanno causato danni e milioni di sfollati. In tutta l’India, Bangladesh e Nepal a fare i conti con i danni sono 40 milioni di persone, tra edifici pubblici distrutti e raccolti devastati. In Niger le piogge torrenziali hanno ucciso 44 persone, di cui una buona parte erano bambini, 8000 case sono crollate e il bestiame è rimasto ucciso dalle inondazioni. La siccità e le inondazioni stanno flagellando il paese africano ormai da mesi e l’allarme Onu si è esteso anche alla Sierra Leone dove i morti sono stati 1000.

Infine l’uragano Harvey, ormai declassato a depressione tropicale, ha causato ingenti danni su case ed edifici pubblici, uccidendo 38 persone (ma si contano ancora 17 dispersi) e provocando esplosioni nella centrale chimica della società Arkema, col rischio di disastro ambientale. Molte persone sono state evacuate o hanno lasciato le loro case ormai al buio per l’assenza di corrente elettrica e per l’assenza di acqua. Secondo AccuWeather i danni ammonterebbero a 190 milioni di dollari, rendendo Harvey il disastro naturale più costoso della storia americana.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

La caccia al petrolio e al gas nella Pianura Padana

Nonostante ormai lo storico giacimento dell’Eni a Cortemaggiore sia vuoto e la Basilicata si sia ormai aggiudicata il titolo di “Texas” d’Italia, l’interesse per gli idrocarburi sepolti nel sottosuolo della Pianura Padana non è venuto meno e la piana del Po è rimasta nei radar delle compagnie petrolifere. Tra Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto l’Unimig del Ministero per lo Sviluppo Economico ha autorizzato ben 53 permessi di ricerca sulla terraferma, più dell’insieme di quelli concessi al centro e al sud. La ripresa della ricerca del petrolio in Pianura Padana è avvenuta attorno al 2010 in quanto negli anni duemila sono state sviluppate nuove tecnologie di ricerca in profondità: il nord est risulta interessante per le compagnie petrolifere perché la sua conformazione geologica è favorevole all’accumulo e la conservazione degli idrocarburi, grazie alle Alpi che fanno da barriera e alcune tipologie di rocce che fanno da “tappo” contro la dispersione di gas e petrolio.

La compagnia Shell è oggi responsabile di un progetto di ricerca di idrocarburi a cavallo tra Piemonte e Lombardia, in un’area di 462 chilometri quadrati chiamata Cascina Alberto, e che era stata già oggetto di perforazioni da parte dell’inglese Northen Petroleum nel 2014, e il permesso durerà 6 anni. Si partirà con l’indagine geofisica (una sorta di “ecografia” al terreno fino a 6000 m di profondità) e a seguire, se l’esito sarà positivo, saranno scavati dei pozzi esplorativi nel 2022.

L’Eni a sua volta, dopo aver esaurito le riserve del giacimento di Villafortuna nel Piemonte orientale, ha iniziato a guardarsi intorno, e nel 2006 ha individuato a Carpignano Sesia il luogo dove scavare un pozzo esplorativo di 4000 m di profondità. Nel 2015 il progetto era stato però fermato dalla Regione Piemonte a causa della mancata valutazione dell’impatto del pozzo sulle falde, l’area della riserva idrica e le sorgenti presso quella località. Nel giugno scorso la decisione della Regione è stata ribaltata dal Ministero dell’Ambiente, che ha concesso il permesso, causando il malcontento della popolazione locale che ha formato un comitato di difesa del territorio che attraverso una colletta è riuscito a comprare il terreno sul quale Eni avrebbe impiantato la trivella. Un messaggio forte dei cittadini del luogo, che hanno invitato quelli di Cascina Alberto (il progetto di Shell) a fare altrettanto e a tenere gli occhi aperti su un nuovo progetto di trivellazioni della compagnia statunitense Aleanna presso la non lontana Cascina Graziosa. La Aleanna ha già in cantiere esplorazioni nel torinese e nel ferrarese. Meno fortuna ha avuto il braccio italiano dell’inglese Apennine, che con le trivellazioni a Zibido San Giacomo nel milanese ha ottenuto gas misto ad acqua e fango e ora pensa a battere in ritirata solo dopo aver trivellato a più di 4000 m di profondità.

A cura di M.B.

DA “BUSINESSINSIDER.COM”