La coltivazione di soia in Brasile

Nel 2019 il Brasile si avvia ad essere il maggiore produttore di soia dopo gli Stati Uniti, con un raccolto attorno ai 117 milioni di tonnellate. La soia viene esportata principalmente verso Europa e Cina, dove viene utilizzata spesso come mangime proteico per allevamenti. Tuttavia secondo il WWF, l’espansione della superficie per la coltivazione della soia nella regione a ricca biodiversità del Cerrado, sarà deleteria: ci vive il 5% del totale delle specie animali e vegetali presenti sulla terra, ma solo il 3% della sua superficie è area protetta. Sono già avvenute importanti deforestazioni a causa delle coltivazioni di soia (solo quest’anno circa 6657 km quadrati). Per non parlare dei danni che arrecherà l’espansione incontrollata dell’agricoltura industriale ai tre bacini idrici dei fiumi principali del paese. Negli ultimi anni ci sono stati fenomeni di siccità e depauperamento delle risorse che vengono usate per irrigare i campi, mentre i villaggi circostanti non hanno da bere e la portata dei fiumi diminuisce. Inoltre la popolazione del Cerrado sta subendo il cosiddetto “land grabbing”, terreni da cui la gente comune viene sfrattata per far posto alle coltivazioni, che portano contaminazione del suolo e delle acque attraverso l’uso dei pesticidi chimici, oltre a prosciugare le risorse di intere comunità che non sanno più di che vivere. Tutto dipende ora dal nuovo governo Bolsonaro, ma alcuni esponenti delle Ong locali che si occupano del Cerrado preferiscono rimanere anonimi, in quanto la questione ambientale in questa nazione è estremamente scottante e gli ambientalisti sono frequentemente oggetto di violenza.

DA “IL CORRIERE DELLA SERA”

A cura di M.B.

La strage della fame in Yemen

L’ONG Save the Children ha diffuso i dati delle Nazioni Unite sulla mortalità dei bambini per fame in Yemen dall’inizio del conflitto nel 2015. Ben 85.000 bambini al di sotto dei cinque anni sono morti di fame o conseguenti malattie in tre anni; migliaia sono anche rimasti feriti o uccisi nel conflitto. 16 milioni di civili, secondo l’Oms, su una popolazione di 27 milioni, hanno urgente necessità di servizi sanitari primari, di cui l’80% dei bambini del paese. 2,2 milioni di bambini soffrirebbero di malnutrizione acuta, mentre l’epidemia di colera sta decimando i più piccoli, con una vittima ogni 10 minuti.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

Le microplastiche nel nostro corpo

Una ricerca condotta dall’Agenzia per l’Ambiente austriaca ha appurato la presenza di polimeri delle microplastiche nelle feci umane; dopo i gabbiani, i pesci e il sale marino, la conclusione scientifica inevitabile è arrivata, ovvero che anche noi siamo contaminati. Forse addirittura il 50% degli esseri umani porterebbe nel proprio corpo tracce di microplastiche. Le particelle rinvenute vanno dai 5 ai 500 micrometri e sono state trovate in un campione di 8 persone provenienti da Europa, Russia e Giappone, non vegetariane. Su 10 varietà di microplastiche ne sono state attestate 9 nei corpi dei partecipanti e le tipologie più comuni sono polipropilene e polietilene tereftalato. 20 particelle ogni 10 grammi di feci in media. Le microplastiche sono capaci di inserirsi nel flusso sanguigno e linfatico, raggiungendo l’apparato intestinale causando potenzialmente malattie. Ridurre l’utilizzo della plastica è necessario, e le grandi responsabili sono le multinazionali soprattutto del settore alimentare e cosmetico, le quali devono impegnarsi a non utilizzare più imballaggi non riciclabili. Aziende quali Coca Cola, Unilever, Mondelez, Pepsico, Kraft Heinz, Procter & Gamble, Mars, Nestlè, Danone e Colgate Palmolive, secondo un sondaggio di Greenpeace, non condividono oppure non conoscono la quantità di imballaggi prodotti e la fine del loro ciclo di vita. Sebbene abbiano tra le loro politiche la riciclabilità degli imballaggi, nessuno sforzo economico a monte è stato fatto per incrementare questo aspetto e nessuno studio su sistemi alternativi di consegna e distribuzione.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

 

Microplastica nel sale da cucina

Greenpeace allerta i consumatori: da un nuovo studio in collaborazione con l’Università di Incheon in Corea del Sud, pubblicato su Environmental Science and Technology, è emerso che il 90% del sale che finisce sulle nostre tavole è contaminato da microplastiche inferiori ai 5 mm; i dati peggiori per concentrazione riguardano l’Asia. Il materiale trovato è Polietilene, PET e Polipropilene, i più utilizzati per gli imballaggi usa e getta. La contaminazione ormai è un dato di fatto a cui è impossibile sfuggire, tra pesci che ingurgitano plastica, rubinetti e cosmetici recanti microplastiche. E’ necessario agire al più presto per bandire la plastica usa e getta prima che diventi un serio rischio per la salute umana; Greenpeace ha già lanciato una petizione per far sì che le multinazionali smettano di utilizzare plastiche monouso.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.