Greenpeace: dimezzare il consumo di carne e prodotti caseari per salvare il pianeta

Il rapporto Greenpeace “Meno è meglio” sottolinea l’importanza di concentrare le politiche agricole europee sulla transizione ad agricoltura ed allevamento ecologici. In particolare evidenzia come il consumo ridotto di carne e prodotti di origine animale possa aiutare nella lotta al cambiamento climatico. Il sostegno agli allevamenti intensivi di animali è un danno perché questi ultimi sono grandi produttori della dannosa CO2 (il 70% di gas serra in agricoltura/allevamento è dovuta agli allevamenti intensivi), e anziché favorirli, bisognerebbe fare un passo deciso verso l’agricoltura sostenibile. Tutto questo anche per favorire il maggiore benessere degli animali stessi, spesso chiusi in stanze o gabbie affollate in pessime condizioni. Inoltre gli allevamenti contribuiscono fortemente all’inquinamento di acqua (azoto e fosforo) e aria (ammoniaca e polveri sottili). I danni sulla salute certo non si faranno attendere, e ce lo dice un rapporto dell’Oms e delle maggiori organizzazioni per la salute e la sicurezza alimentare: la resistenza dei batteri presenti negli animali agli antibiotici è una minaccia concreta per la salute umana. Dunque non sono solo le organizzazioni ecologiste a premere nella direzione di un minore consumo di prodotti di origine animale, ma anche gli scienziati e medici delle organizzazioni internazionali.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

 

FAO: forse è giunta la fine della “rivoluzione verde”

Il direttore della FAO, Josè Graziano de Silva, ha pronunciato davanti a 700 delegati di 72 paesi, 350 agenzie non governative e 6 agenzie ONU la seguente frase: “Il modello della rivoluzione verde, attuato dopo il secondo dopoguerra, è esaurito”.

Il vento sta portando l’agricoltura del futuro lontana dall’agroindustria e dalla chimica; l’agricoltura non sostenibile è ormai nel mirino, e non manca molto perché suoni la sua ultima ora. Le prove del fallimento sono sotto gli occhi di tutti: se nel dopoguerra la quantità di cibo pro capite è aumentata del 40% grazie alla cosiddetta rivoluzione verde, oggi si contano 815 milioni di persone al mondo che soffrono la fame, mentre il cibo che mangiamo diventa sempre più povero di nutrienti e l’acqua che beviamo e usiamo nelle aziende, sempre più inquinata. Il summit di Roma della FAO ha messo in luce l’importanza di una virata decisa verso l’agroecologia, che permette il recupero di coltivazioni di specie messe da parte a favore di altre, ma che racchiudono pari o superiore valore nutritivo, che dunque permette di variare la nostra dieta, sempre più monotona, salvando la biodiversità del pianeta. Sicurezza alimentare e resilienza al cambiamento climatico sono parole chiave, per rafforzare la sussistenza e le economie locali, portando lavoro, autosufficienza, preservando e arricchendo la cultura tradizionale in fatto di cibo. Piccoli agricoltori e consumatori saranno i protagonisti del cambiamento; per quanto riguarda questi ultimi, il trend del biologico si rafforza di anno in anno, ma per ora il nodo resta quello dei prezzi. Infatti per portare avanti un’agricoltura pulita bisogna investire molto denaro e conseguentemente i prezzi sono molto più alti rispetto a quelli dell’agricoltura chimica.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Conflitti e carestie: a rischio 124 milioni di persone

Il Rapporto globale sulle crisi alimentari 2018 elaborato dalla FAO e altre organizzazioni umanitarie pone degli accenti precisi sulle cause delle carestie e della fame, che non sono da attribuire ad un destino avverso, bensì a precise responsabilità umane: principalmente i conflitti armati. Dal Sud Sudan, all’Iraq, all’Afghanistan, le guerre, che siano chiamate preventive o “umanitarie” o che siano vere e proprie invasioni e prove di forza dichiarate, portano tutte allo stesso risultato: affamare la popolazione. L’insicurezza alimentare purtroppo colpisce più di 124 milioni di persone nel mondo, e la speranza di aiutarle è legata alla pace, in quanto spesso le parti guerreggianti limitano l’accesso agli aiuti umanitari per le popolazioni colpite. In poche parole, coloro che manovrano le guerre hanno la pancia piena, mentre i civili devono patire la fame.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Pesca a rischio nei mari surriscaldati

Secondo uno studio pubblicato su Science, se l’aumento delle temperature continuerà ai ritmi attuali, ci sarà un calo del 20% della pescosità dei mari nei prossimi 300 anni, con picchi del 60% nel Pacifico occidentale, con effetti duraturi.

Le simulazioni degli scienziati californiani della Università di Irvine hanno preso in considerazione lo scenario peggiore, con aumento delle temperature non mitigato, con oltre 10 gradi in più sulla terra entro il 2300. Avverrebbe dunque lo scioglimento dei ghiacci completo, col mare che andrebbe a coprire una parte delle terre emerse con sconvolgimenti enormi per gli ecosistemi marini attraverso anche il cambiamento delle correnti e conseguente modifica del ciclo di distribuzione delle sostanze nutritive, ovvero del fitoplancton, che si svilupperebbe nelle profondità dell’Antartide e non altrove, a latitudini più settentrionali, dove il pesce inizierebbe decisamente a scarseggiare. In uno scenario del genere è difficile immaginare come se la caverebbe l’uomo; ed è quasi superfluo ribadire che ridurre l’inquinamento ne va della nostra sopravvivenza come specie.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Siccità: a rischio coltivazioni pomodori al Sud

La zona della Capitanata, in provincia di Foggia, è particolarmente importante per l’agricoltura italiana, in quanto da qui arriva la quasi totalità di pomodori pelati venduti in Italia e il 30% dei pomodori da industria. L’indotto della filiera della produzione del pomodoro ammonta a circa un miliardo di euro, e se la stagione si rivelasse poco produttiva, come sembra a causa di un inverno troppo secco, le ricadute sull’occupazione e sul raccolto sarebbero drammatiche. La carenza di acqua fa sì che gli agricoltori che decidono di mettere in serra centinaia di migliaia di piante, facciano una scommessa davvero azzardata. La diga di Occhito sul Fortore tra Puglia e Molise, contiene meno della metà dell’acqua che conteneva nello stesso periodo dell’anno scorso, e se le cose non dovessero cambiare a breve, i produttori che contano sull’acqua della diga per irrigare, avranno un mancato reddito e in più non sono previste compensazioni. D’altro canto, coloro che possono contare sui pozzi venderanno ad un prezzo maggiore. Tuttavia la situazione per i consumatori, anche in vista di un calo della produzione del 30/35% (secondo l’imprenditore Franco Franzese, CEO di Fiammante, industria del salernitano), non cambierebbe, in quanto i prezzi non aumenterebbero e vi è un vasto lotto di merce invenduta nei magazzini dei conservifici, in quanto l’anno scorso si è verificato un grande aumento della produzione, specie nel nord.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.