La battaglia della foresta di Hambach in Germania

Un bosco millenario da 300 ettari tra Colonia e Aquisgrana sta per essere parzialmente abbattuto dal colosso europeo dell’elettricità RWE per scavare lignite, e dopo lo scempio già operato in passato su 4 mila ettari di alberi nelle vicinanze, gli ambientalisti non ci stanno. Hanno occupato letteralmente la foresta con baracche e rifugi e si rifiutano di abbandonarli; i primi presidi risalgono addirittura al 2012, solo che all’epoca le ruspe Rwe si limitavano a “ripulire” il bosco da spazzatura e catapecchie, ora però fanno sul serio e vogliono cacciare definitivamente gli attivisti, perchè il primo di ottobre entrerà in vigore il permesso di estrazione. La polizia è persino arrivata in assetto antisommossa con idranti e camionette al seguito: una sorta di “Val Susa” tedesca. Gli ambientalisti da parte loro non cedono, si fanno incatenare agli alberi e murare nel terreno col cemento, tanto che persino un sindacato di polizia ha chiesto a RWE di non procedere almeno per quest’anno: l’obiettivo è aspettare che passi il rapporto della Commissione per la trasformazione energetica per il superamento della dipendenza dal carbone. Purtroppo si sa quanto il carbone (e in particolare la lignite) siano importanti per la Germania, anche in termini di posti di lavoro. Certo sarebbe una brutta figura e una contraddizione bella e buona se il governo dovesse far abbattere una foresta millenaria appena due mesi prima di approvare una svolta ambientalista sulle rinnovabili. Che la battaglia abbia inizio.

DA “IL CORRIERE DELLA SERA”

A cura di M.B.

Il tasso di deforestazione stabile da 17 anni

Uno studio che verrà diffuso dalla Global Forest Watch e Science Magazine ha appurato come nonostante gli sforzi delle associazioni ambientaliste e i proclami dei governi del mondo, il tasso di deforestazione dal 2001 non sia per nulla cambiato, soprattutto a causa dei commerci. I dati raccolti tengono in conto le zone colpite, le cause e la situazione delle aree dove si è verificata una deforestazione permanente; la buona notizia è che anche alcune di queste ultime, secondo gli scienziati, avrebbero una speranza di “rifiorire” come habitat di vegetali e animali. Gli obiettivi della “deforestation-zero” entro il 2020 sono decisamente lontani, specialmente a causa della deforestazione legata al commercio, sia in Amazzonia che in Africa (per il cacao, la soia e la carta ad esempio). Questo sfruttamento intensivo spesso è fonte di “alterazione permanente del paesaggio”, ed avviene anche con le attività di estrazione mineraria. Il disboscamento dovuto a incendi sarebbe invece meno grave in quanto vi sarebbe una speranza di recuperare l’area danneggiata. Selvicoltura, incendi e urbanizzazione sono fattori decisamente secondari rispetto alla deforestazione legata alle materie prime (5 milioni di ettari l’anno da 15 anni). Mentre negli anni ’90 e 2000 il disboscamento nell’Amazzonia brasiliana era di 20.000 ettari l’anno, dal 2005 è calato del 70% per poi rimanere sostanzialmente stabile; un chiaro indice di fallimento delle politiche ambientali e degli obiettivi stabiliti dalla comunità internazionale in materia.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

I parassiti dei raccolti

Uno studio dell’Università di Washington ha evidenziato la voracità e il gran numero in costante aumento dei parassiti delle coltivazioni di cereali come riso, mais e grano nelle zone temperate del pianeta. E’ una condizione che si aggrava con l’aumento delle temperature, come è dimostrato dallo studio: per ogni grado in più si perderà dal 10 al 25% del raccolto a causa di insetti e parassiti, specialmente in USA, Francia e Cina. 213 milioni di tonnellate di cereali saranno perduti con l’aumento di due gradi: il 46% del grano, il 31% del mais e il 19% del riso. Gli insetti vedono aumentare il loro metabolismo e il loro tasso di riproduzione col caldo, dunque sarebbe opportuno affrontare il problema pesticidi prima possibile per affrontare anche questo lato dell’emergenza clima.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Riserve ittiche ai minimi

L’ONU continua a denunciare il depauperamento dei mari, saccheggiato da mezzo secolo di pesca selvaggia: la situazione rischia di trasformarsi presto in un disastro ambientale con il 90% delle riserve ittiche con un surplus di pescato. Oltre al danno per l’ecosistema ci sarebbero pesanti ripercussioni su coloro che lavorano nel settore della pesca, per il 97% nei paesi in via di sviluppo (in totale 60 milioni di persone). Per questo motivo nel 2015 nell’ambito dell’Agenda 2030, 193 nazioni si sono impegnate a sottoscrivere 17 “Sustainable Development Goals” tra cui “Life Underwater”, l’articolo numero 14, volto alla protezione della fauna e la flora marina. In quella sede è stato stabilito che l’unico metodo efficace per mettere un freno allo scempio dei mari è il taglio dei sussidi alla pesca entro il 2020. Le agevolazioni sul gasolio marino portano alla formazione di flotte sempre più grandi, colossi che sono responsabili dell’85% del pescato mondiale ma che danno lavoro solo al 10% dei pescatori, mentre solo le briciole vengono lasciate al restante 90%, i più poveri proprietari di modesti pescherecci, i meno responsabili dunque per il disastro ambientale causato nei mari. Il punto della situazione lo si è fatto lo scorso luglio in una due giorni a Ginevra, l’Oceans Forum, dove ONU e FAO agiscono da coordinatrici. La priorità è continuare sulla strada dei tagli ai sussidi, ma molti paesi sembrano essersi già messi sulla strada giusta, come Malta, Maldive, Ecuador e Perù, che stanno incrementando le buone pratiche per la pesca sostenibile e puntando su settori alternativi come acquacultura e produzione di alghe per consumo alimentare.

DA “La Stampa”

A cura di M.B.

Siccità in Arizona

E’ emergenza siccità nello stato americano conosciuto anche per i suoi cavalli selvaggi che corrono da sempre liberi sui pendii delle Grey Mountains; gli splendidi quadrupedi soffrono per la mancanza di risorse idriche e si presentano deboli e disidratati. Non manca solo l’acqua però, manca anche il cibo per la scarsa presenza di vegetazione. Così Glenda e Paul, due abitanti della zona, hanno deciso di allestire un abbeveratoio di fortuna, una grande vasca perché i cavalli potessero bere, e presto, dopo la pubblicazione di una foto su Facebook, la notizia si è diffusa. Grazie a tutto ciò ora molti vicini si sono attrezzati allo stesso modo, e alla porta della coppia si sono presentati numerosi volontari per dare una mano. La stessa associazione no profit Wild Horse Ranch Rescue si è interessata al coordinamento dei volontari. I poveri cavalli sono ridotti a scheletri viventi per mancanza di acqua e cibo, ma grazie al sostegno di molti volontari, stanno ricominciando a recuperare la salute. Solo dopo aver bevuto ininterrottamente per settimane le povere bestie hanno iniziato a reagire agli stimoli e a mangiare.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.