Il Congo autorizza triivellazioni per il petrolio in aree protette

Il momento temuto è arrivato: purtroppo il governo congolese ha dato il via libera alle compagnie petrolifere per la trivellazione nei parchi nazionali di Virunga e Salonga (quest’ultima è la seconda maggiore foresta pluviale nel mondo). I parchi sono abitati da numerose specie vegetali ed animali protette, come elefanti, pavoni e il famoso gorilla di montagna, che oltretutto è a rischio estinzione. Il parco Virunga sarà in parte “declassato” dal governo ad area non protetta, tutto ciò a beneficio delle multinazionali e a danno dell’ecosistema, per il quale gli ambientalisti si sono battuti senza risultato. Un quinto del Virunga sarà dunque aperto alle trivellazioni. La decisione ha suscitato la generale riprovazione della comunità scientifica, ambientalista e non solo su tutti i social. Purtroppo, secondo il biologo Daniel Schneider, c’erano già delle avvisaglie di ciò che sarebbe successo: infatti poco prima il parco Virunga era stato chiuso al pubblico fino al 2019 a causa di un rapimento e un attacco ai rangers. Ma a posteriori tutto questo suona come una scusa per sottrarre il parco all’attenzione generale. Il pericolo delle trivellazioni non interessa solamente la fauna, ma anche noi esseri umani, in quanto l’anidride carbonica liberata durante i lavori contribuirà ulteriormente al surriscaldamento globale. Il governo congolese cerca maldestramente di rassicurare sul fatto che la fauna e l’ecosistema saranno protetti, ma già si vedono bracconieri col fucile in mano aggirarsi per le foreste pronti a depredarle dei loro abitanti.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

Una pianta che brucia la pelle: avvistamenti negli USA (ma c’è anche in Italia)

Il panace di Mantegazza è una pianta molto invasiva e pericolosa, potenzialmente causa di ustioni e cecità; è stato registrato un aumento nella presenza di quest’ultima negli USA secondo gli esperti del Massey Herbarium della Virginia Tech University, facendo della Virginia il nono stato “colonizzato” dalla pericolosa pianta. Essa è originaria del Caucaso, ma si è espansa in tutta Europa per il suo uso come pianta ornamentale. Il panace fa parte delle piante ombrellifere e può raggiungere un’altezza di cinque metri; ha fiori bianchi e foglie di grandi dimensioni. La sua linfa contiene le furanocumarine, delle sostanze velenose che a contatto con la luce si attivano, e se si tocca la pianta si possono sviluppare infiammazioni bollose gravi sulla pelle e si rischia anche di rimanere ciechi temporaneamente o permanentemente se si toccano gli occhi. E’ presente anche in Italia, e benché non ci sia da preoccuparsi, è necessario fare attenzione nelle zone alpine e subalpine, in particolare Veneto, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta. Fa parte delle 49 specie invasive più pericolose in Europa, avendo causato 10.000 ospedalizzazioni nel nord Europa. Ovviamente qualora ci si dovesse imbattere in un esemplare di panace non bisogna toccarlo per nessun motivo, e fotografare se possibile la pianta e avvertire il comune che procederà all’eventuale eradicazione.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

In Africa i baobab stanno scomparendo

I giganti millenari della savana africana stanno subendo una moria da almeno 12 anni, le cui cause sono ancora da chiarire. L’allarme è stato lanciato da un team di ricerca internazionale che ha pubblicato la propria ricerca su Nature Plants. La ricerca nasceva per studiare le caratteristiche dei baobab, che sono una delle specie più longeve tra le angiosperme (possono vivere oltre i 2000 anni, raggiungendo un’altezza di 25 m e una larghezza di 10): in 12 anni i ricercatori hanno mappato i tronchi di 60 degli esemplari più vecchi deceduti e hanno scoperto che dal singolo fusto che hanno alla nascita, possono sviluppare poi vari tronchi che poi si fondono nell’ammasso di legno che osserviamo negli esemplari più vecchi. Un processo di formazione e sviluppo complesso e raro. La ricerca però ha scoperto anche che in 12 anni, 13 dei baobab più vecchi e 5-6 dei più imponenti hanno subito delle alterazioni come il disseccamento e lo sgretolamento della parte più antica del proprio fusto, cosa non dovuta ad epidemie oppure altre cause conosciute. Si ipotizza che sia il cambiamento climatico stesso ad indebolire queste piante millenarie.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

L’inquinamento colpisce le radici degli alberi

Secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Nature” e portato avanti dall’Imperial College of London in collaborazione con i Royal Botanic Gardens, non è solo l’aria a fare le spese dell’emissione di gas nocivi, ma anche il sottosuolo ed i suoi abitanti. In particolare, lo studio si concentra sui funghi micorizzici che abitano le radici degli alberi e che danno loro nutrimento: tra questi microrganismi e gli alberi c’è un vero e proprio rapporto simbiotico che ora è messo a rischio dall’inquinamento. I funghi sostanzialmente “prendono” il carbonio dalle piante ed in cambio rilasciano sostanze come fosforo, azoto e potassio, importanti per il nutrimento degli alberi. Gli scienziati hanno analizzato per ben 10 anni 40.000 campioni di radici in 20 paesi europei, prendendo in esame specie di alberi come il faggio, la quercia, l’abete, ecc. e hanno riscontrato che le preziose colonie fungine hanno subito un forte ridimensionamento a causa dell’inquinamento. Si è ipotizzato che lo stato di deperimento (foglie scolorite o assenti ad esempio) degli alberi nelle nostre aree urbane possa essere ricondotto al cattivo stato di salute dei funghi. La loro funzione è talmente importante che se l’inquinamento dovesse continuare a questi livelli, distruggendo le colonie, potremmo ritrovarci entro poco tempo senza foreste. Gli studiosi sottolineano come azoto ed altre sostanze, a concentrazioni troppo alte, possano essere altamente nocive per i funghi e che dunque un abbassamento dei livelli massimi di inquinamento possa fare la differenza in Europa, accompagnato ad un attento monitoraggio.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Mercurio e DDT rilasciati dalla plastica in mare

In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani 2017, è stato presentato uno studio di Legambiente in collaborazione con l’Università di Siena, che dimostra come i rischi dell’accumulo di plastica nei mari non siano solo legati alle conseguenze sulla fauna, ma anche alle sostanze tossiche rilasciate.

Organo-clorurati come il DDT e il mercurio sono le sostanze riscontrate maggiormente dallo studio sui rifiuti galleggianti presenti nei nostri mari, quali buste e teli di plastica. I contaminanti sono purtroppo stati individuati nella totalità di campioni analizzati, sebbene in diversa concentrazione a seconda delle aree interessate e del grado di invecchiamento del rifiuto.

Chiaramente il maggiore pericolo è dato dal fatto che le sostanze tossiche sono entrate a far parte dell’ecosistema marino e quindi della catena alimentare.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.