Niente carne e latticini per ridurre l’impatto sull’ambiente

Uno studio condotto dall’Università di Oxford e pubblicato su Science, ha appurato che un ridotto apporto di alimenti derivati dagli animali potrebbe essere parte della soluzione dei problemi ambientali della Terra. Innanzitutto, se riducessimo il consumo di prodotti latteo caseari e di manzo, il 75% dei terreni agricoli si libererebbe, dando respiro al suolo soffocato dall’allevamento intensivo e si potrebbe ricominciare a coltivare specie vegetali o graminacee cadute in disuso. Nello studio sono state coinvolte poco meno di 40.000 aziende agricole di 119 paesi, impegnate nella produzione dei 40 principali alimenti che troviamo sulle nostre tavole. Considerando i dati dell’intera filiera, è stato appurato che dal produttore al consumatore l’impatto ambientale, in alcuni casi, è spropositato. Bisogna pensare che carne e latticini forniscono solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine, ma utilizzano ben l’83% dei terreni agricoli e producono il 60% dei gas serra. L’impatto ambientale della produzione di carne e formaggi è di gran lunga superiore a quello dei vegetali (emettono 12 volte più anidride carbonica e utilizzano 50 volte più terreno). I costi ambientali del nostro consumo di carne e derivati sono enormi e secondo gli studiosi adottando una dieta vegana le emissioni si ridurrebbero del 73%. Quel che è certo è che un cambiamento di abitudini alimentari sarebbe più che auspicabile per la salute della Terra.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Una specie invasiva di vermi in Francia e Italia

Ultimamente una specie di vermi piatti, facenti parte della famiglia delle planarie terrestri, ha colonizzato le zone urbane di molti paesi, comprese Francia ed Italia in Europa. Lunghe fino a 40 cm, tradizionalmente presenti nelle campagne, si cibano di chiocciole e lombrichi e potenzialmente, secondo i ricercatori del Museo Nazionale di Storia Naturale in Francia, potrebbero mettere in pericolo la biodiversità. Già 20 anni fa erano state segnalate delle planarie esotiche tipiche della Nuova Guinea in Europa, ma le loro dimensioni erano decisamente più ridotte (5/10 cm) e la loro espansione meno aggressiva. I vermi studiati ultimamente appartengono alle specie Bipalium kewense (dai Kew Gardens londinesi dove fecero la prima comparsa a fine ottocento) tipica del sudest asiatico, Diversibipalium multilineatum (trovato recentemente a Bologna), Bipalium vagum (tipico del sudamerica) e infine un elegante Diversibipalium di colore blu brillante tipico delle isole dell’oceano indiano. Ora c’è da capire quale sarà il loro impatto sul milieu ecologico urbano delle città europee.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

L’uomo rappresenta lo 0,01% della vita sulla Terra ma ha distrutto l’83% delle altre specie

In termini di biomassa l’uomo costituisce un insignificante 0,01%, ma è l’organismo vivente più impattante sulle altre specie, tanto da aver fatto estinguere l’83% dei mammiferi selvatici dall’inizio della propria esistenza sulla Terra. Le specie viventi sulla Terra sono per l’82% piante, 13% batteri, 5% animali e solo 0,01% uomini, e la maggior parte della vita si svolge sulla terraferma (86%). Da queste proporzioni capiamo quanto la nostra impronta sul nostro pianeta sia distruttiva: l’essere umano ha deviato e plasmato la natura a proprio piacimento e per i propri esclusivi fini. Ha favorito alcune specie al posto di altre (pensiamo agli animali che vivono in batteria e l’estinzione di quelli selvatici), ha cacciato, disboscato e distrutto habitat. Il 70% dei volatili è costituito ormai da pollame e il 60% dei mammiferi da bovini e suini per il nostro consumo. Solo il 30% dei volatili è selvatico e il 4% dei mammiferi è selvatico (tra i mammiferi il restante 36% siamo proprio noi umani). Il nostro dominio incontrastato è davvero crudele sul resto delle specie e dovremmo al più presto rivedere le nostre scelte, anche in campo alimentare.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Uccelli migratori minacciati dal surriscaldamento globale

La popolazione di uccelli migratori sta inesorabilmente diminuendo a causa della distruzione degli habitat, del surriscaldamento che porta a sfavorevoli modifiche di quest’ultimo e della caccia indiscriminata. Il 40% delle specie sono a rischio e ben 200 specie sono passate in pochi anni allo status di “globalmente minacciate”. Numerose specie di volatili, tra cui le nostre amate rondini, non sopravvivono più alla migrazione dall’Africa all’Europa, in quanto il cambiamento climatico sta facendo espandere l’area del deserto sahariano verso sud, dunque il dispendio di energie è sempre maggiore per il viaggio e molti esemplari non ce la fanno. Questa ecatombe va fermata con una maggiore sensibilizzazione nei confronti di queste creature capaci di collegare tra loro ecosistemi tra i più diversi. Purtroppo molto di ciò che è stato fatto è irreversibile e continuiamo imperterriti ad occupare prepotentemente il posto che spetta anche alle altre forme di vita.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Aree protette: un terzo a rischio per l’azione umana

Uno studio pubblicato sulla rivista Science rivela come le aree protette su carta siano in realtà sottoposte a forti pressioni a causa dell’intervento umano. Le aree tutelate formalmente rischiano di perdere la loro biodiversità per prossimità ad autostrade, allevamenti intensivi ed aree urbanizzate; come al solito è difficile mantenere oasi incontaminate a fronte di un mondo fortemente antropizzato. Il 15% della nostra Terra è formalmente sottoposto a vari livelli di tutela, che in ogni caso (sia nei casi più restrittivi che quelli più morbidi), significa la salvaguardia degli ecosistemi e della biodiversità originaria di un luogo. Ma qual è la verità dietro alle carte? Gli scienziati hanno esaminato la Human Footprint, la nostra vera impronta su queste aree. Hanno tenuto in conto di infrastrutture, centri abitati, costruzioni, allevamenti e corsi d’acqua sfruttati. Gli autori del paper sono arrivati alla conclusione che l’essere umano sta esercitando una pressione deleteria su ben il 32,8% delle aree protette (per capirci l’estensione è pari ai due terzi della Cina). Quelle che se la cavano meglio sono le aree protette in luoghi remoti, mentre quelle che si trovano in Asia, Europa ed Africa sono più a rischio per la prossimità dell’essere umano. Esempi virtuosi di gestione delle aree tutelate si trovano ad esempio in Cambogia, Bolivia ed Ecuador; è inoltre documentato che dove le regole sulla biodiversità sono più stringenti le cose funzionano meglio. Certo non si può prescindere anche da buoni finanziamenti ed è per questo che i ricercatori ed esperti devono farsi sentire maggiormente dai governi, perché anche dove le cose vanno peggio, c’è ancora speranza.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.