La plastica che soffoca il Mediterraneo

Una ricerca congiunta dell’ISMAR e dell’Università Politecnica delle Marche ha riscontrato come anche nel Mediterraneo, nel territorio italiano, esistano delle isole di microplastiche la cui estensione è paragonabile a quella dei vortici di plastica del Pacifico. I dati sono stati incrociati con quelli di Greenpeace, che ha effettuato una campionatura delle nostre acque nell’ambito del progetto dello scorso anno “Meno plastica e più Mediterraneo”. Ciò che è venuto fuori dalla campionatura, che ha coinvolto sia luoghi a forte impatto antropico (porti e foci di fiumi) che aree protette, è che i primi non risultano di molto più inquinati dei secondi; ci si aspetterebbe che a Portici (Napoli), le acque siano più inquinate che alle Isole Tremiti, tuttavia il livello di concentrazione delle microplastiche è simile. Riempiendo, per fare un esempio pratico, due piscine olimpioniche con l’acqua di Portici e l’acqua delle Isole Tremiti, nella prima piscina nuoteremmo immersi in 8900 pezzi di plastica e nella seconda in mezzo a 5500 pezzi. E’ dal 1950 che la produzione di plastica aumenta ininterrottamente e ogni anno 8 dei 300 milioni di tonnellate di plastica prodotti finisce in mare. Le microplastiche provengono da prodotti cosmetici e di uso personale (spesso monouso/usa e getta), ma anche da frammenti di oggetti di misura maggiore e imballaggi. Sono stati individuati ben 14 polimeri nelle plastiche rinvenute nelle nostre acque ma il polietilene è di gran lunga quello più diffuso. A breve arriveranno anche i risultati delle ricerche dell’UNIVPM sull’impatto delle microplastiche sui pesci e organismi marini delle nostre coste.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

40% delle specie di uccelli in declino

La popolazione di uccelli come la pulcinella di mare, la civetta delle nevi e la tortora sono ad alto rischio a causa dell’agricoltura intensiva, la deforestazione e i pesticidi, denuncia l’associazione BirdLife, che sottolinea come questi siano i problemi principali del declino che si può attestare in natura. Una specie su otto è minacciata di estinzione globale a causa del cambiamento climatico. Quasi superfluo sottolineare come siano stati stravolti habitat e cicli migratori per la maggior parte delle specie. Il fatto che il 40% delle specie di uccelli (tre quarti di quelli volanti) siano in pericolo è un campanello d’allarme non solo per coloro che sono interessati alla conservazione delle specie ma per tutti noi, perché gli uccelli sono sentinelle della salute dell’ambiente. Potrebbe rivelarsi un “armageddon” ecologico se non si corresse subito ai ripari, prendendo contromisure sui pesticidi neurotossici e la deforestazione, oltre che sulle le specie invasive. Le soluzioni ci sono, 25 specie sono state salvate dall’estinzione negli ultimi dieci anni ad esempio, bisogna solo metterle in atto con determinazione.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

La Grande Barriera Corallina è cambiata per sempre

La Grande Barriera Corallina australiana ha cambiato volto per sempre a causa dei cambiamenti climatici: quasi un terzo dei coralli sono morti nel 2016 (prima è stata colpita la parte settentrionale, in seguito quella centrale della barriera) per il fenomeno dello sbiancamento, dovuto a mesi di temperature anomale, sopra i 6 gradi centigradi. La situazione anomala si è poi ripetuta per mesi anche nel 2017. Le temperature sempre più alte stanno segnando il destino di questa barriera lunga 2300 km al largo di Queensland. Forse alcuni dei coralli più resistenti troveranno il modo di sopravvivere in queste condizioni, ma gli scienziati sono convinti che oramai la situazione sia irreversibile, in quanto gli episodi di calura estrema che portano alla sofferenza dei coralli non avvengono più a distanza di 25 anni ca., come avveniva dagli anni ’80, ma a distanza di pochi anni, talvolta anche in due anni consecutivi.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Metà delle specie animali e vegetali a rischio per il cambiamento climatico

Sulla rivista Climatic Change è stato pubblicato uno studio frutto della collaborazione tra WWF, università dell’East Anglia e la James Cook University in Australia, che mette in guardia sul rischio della perdita della biodiversità in luoghi come il Mediterraneo, le Galapagos e l’Amazzonia: addirittura metà delle specie animali e vegetali sarebbero potenzialmente a rischio. L’impatto del surriscaldamento del globo in questi paradisi di biodiversità potrebbe davvero rivelarsi drammatico: anche se non si superasse i 2 gradi, il limite dell’accordo di Parigi, si potrebbe arrivare ad una perdita del 25% delle specie nei luoghi chiave della biodiversità. Con scenari più drammatici, ovvero senza taglio delle emissioni, si potrebbe perderne anche la metà. Lo studio è stato condotto su ben 80.000 tra specie di piante e animali, in quelle aree che costituiscono l’habitat di specie altrove rare o assenti. Le savane boschive in Africa, il Madagascar, la Guyana amazzonica e l’Australia sudoccidentale sono alcune delle zone che sarebbero colpite duramente, con perdite significative di anfibi, uccelli e mammiferi. Le percentuali, spaventose, si aggirano tra il 60 e il 90% delle varie specie, l’Amazzonia potrebbe addirittura perdere il 69% delle sue specie vegetali. L’unicità di queste specie, che fanno la bellezza di quei luoghi, sarebbe spazzata via entro pochi decenni a causa di carenze idriche e surriscaldamento. Il Mediterraneo, a sua volta, sarebbe vulnerabile anche con un minimo sbalzo di temperatura: la calura mette già in crisi il suo ecosistema, causando pesante stress nelle popolazioni di cetacei e soprattutto di tartarughe marine, le più minacciate. Aggiungendo all’impatto del clima anche l’attività umana, si può ben comprendere come il 30% delle specie marine del Mediterraneo siano ora in pericolo. L’unica soluzione è uno stop deciso alle emissioni inquinanti, in quanto il danno che è già stato compiuto può essere solo così mitigato, ma le conseguenze di un ulteriore aumento della temperatura, dato dallo status quo, può arrecare danni incalcolabili se si arriverà ad un aumento di 4,5 gradi a fine secolo.

DA “IL CORRIERE DELLA SERA”

A cura di M.B.

FAO: forse è giunta la fine della “rivoluzione verde”

Il direttore della FAO, Josè Graziano de Silva, ha pronunciato davanti a 700 delegati di 72 paesi, 350 agenzie non governative e 6 agenzie ONU la seguente frase: “Il modello della rivoluzione verde, attuato dopo il secondo dopoguerra, è esaurito”.

Il vento sta portando l’agricoltura del futuro lontana dall’agroindustria e dalla chimica; l’agricoltura non sostenibile è ormai nel mirino, e non manca molto perché suoni la sua ultima ora. Le prove del fallimento sono sotto gli occhi di tutti: se nel dopoguerra la quantità di cibo pro capite è aumentata del 40% grazie alla cosiddetta rivoluzione verde, oggi si contano 815 milioni di persone al mondo che soffrono la fame, mentre il cibo che mangiamo diventa sempre più povero di nutrienti e l’acqua che beviamo e usiamo nelle aziende, sempre più inquinata. Il summit di Roma della FAO ha messo in luce l’importanza di una virata decisa verso l’agroecologia, che permette il recupero di coltivazioni di specie messe da parte a favore di altre, ma che racchiudono pari o superiore valore nutritivo, che dunque permette di variare la nostra dieta, sempre più monotona, salvando la biodiversità del pianeta. Sicurezza alimentare e resilienza al cambiamento climatico sono parole chiave, per rafforzare la sussistenza e le economie locali, portando lavoro, autosufficienza, preservando e arricchendo la cultura tradizionale in fatto di cibo. Piccoli agricoltori e consumatori saranno i protagonisti del cambiamento; per quanto riguarda questi ultimi, il trend del biologico si rafforza di anno in anno, ma per ora il nodo resta quello dei prezzi. Infatti per portare avanti un’agricoltura pulita bisogna investire molto denaro e conseguentemente i prezzi sono molto più alti rispetto a quelli dell’agricoltura chimica.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.