La plastica nell’acqua che beviamo

Secondo una ricerca condotta da Orb Media, ente no profit di Washington, in tutto il mondo sgorgherebbe dai rubinetti acqua inquinata da fibre di plastica microscopiche: su 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole sparpagliate in tutti i continenti, l’83 % di essi (compresa l’acqua che esce dal rubinetto del Congresso degli Stati Uniti e l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente americana) presentano fibre di plastica. Ciò che ne consegue è che tutto ciò che viene preparato con quella stessa acqua, ovvero pane, pasta, ecc., è inquinato dalla plastica. Sapevamo che negli oceani, nelle acque dolci e nell’aria sono presenti queste fibre di plastica, che attraverso la catena alimentare vengono da noi assimilate (pensiamo alle zuppe di plastica di cui si cibano i pesci), ma la notizia è che anche nell’acqua potabile dei nostri rubinetti sono presenti. Gli scienziati ancora non si spiegano esattamente come possano finire nell’acqua corrente queste sostanze contaminanti, ma l’ipotesi è che vi giungano attraverso fibre di tessuti sintetici di vestiti o di tappezzeria e che esse possano veicolare agenti chimici tossici pericolosi per la salute umana. Se le microplastiche hanno un effetto così negativo sulla fauna selvatica, come possiamo aspettarci che non ce l’abbia su di noi? La contaminazione inoltre non si fa fermare da barriere geografiche o reddito: chi pranza alla Trump Tower e chi beve da un rubinetto in Ecuador assume la stessa quantità di fibre plastiche. Persino chi usa i filtri per l’osmosi inversa non è immune dal problema.

In America la plastica non è neanche prevista dall’ Epa come sostanza inquinante nelle acque, mentre la legislazione europea parla genericamente di “sostanze contaminanti” senza specificarne la natura. Lo studio compiuto è per questo motivo decisamente rivoluzionario, in quanto per la prima volta si identifica la plastica come inquinante nelle nostre acque potabili: a New Delhi l’82 % delle acque è contaminato da plastica, in Uganda poco meno, mentre in varie città europee si viaggia attorno al 70 %. Indubbiamente questo studio pionieristico farà da apripista ad altre indagini e confronti più specifici tra regioni e per capire precisamente quale può essere l’impatto sulla salute umana, in quanto la plastica presente nelle condutture dell’acqua, nelle acque reflue o che viene trasportata nell’aria per poi ricadere negli specchi d’acqua potrebbe contenere perturbatori endocrini. Il problema non se l’era mai posto nessuno a quanto pare e persino le autorità competenti negli USA si limitano a ripetere che le acque potabili sono a norma, forse per non creare isterie collettive. Purtroppo il problema resta però,con tutte le sue incognite, e in attesa di ricerche più precise e soluzioni innovative dobbiamo cercare, nel nostro piccolo, di fare attenzione alle azioni quotidiane che compiamo, per non aggravare il problema: cercare di non fare grande utilizzo di sacchetti, bottigliette e cannucce in plastica e mettere dei filtri alle lavatrici in modo da ridurre la presenza di fibre di plastica degli indumenti sintetici nelle acque.

A cura di M.B.

DA “FOCUS.IT”

Fibrosi polmonare idiopatica e traffico

Le aree ad alti livelli di biossido di azoto sono strettamente correlate all’insorgenza di un’insidiosa malattia che riduce la funzionalità polmonare con formazione di tessuto cicatriziale al posto di quello sano: è la fibrosi polmonare idiopatica. Questo è il risultato di uno studio recente condotto da un team di ricercatori italiani e americani che sarà presentato ufficialmente al Congresso annuale della European Respiratory Society a Milano nel mese di settembre.

Incrociando i dati che si riferiscono ai malati di fibrosi polmonare (15 mila in tutto il paese, con un aumento pari a 4500 unità l’anno, perlopiù ex fumatori) e i dati che si riferiscono alla concentrazione di biossido di azoto in varie zone della Lombardia (la prima regione esaminata), i ricercatori hanno osservato un’incidenza maggiore di malati nei luoghi dove l’inquinante da traffico si attestava a livelli alti, spesso al di sopra del livello consentito dalla normativa europea (le quantità nell’aria variavano dai 40 ai 60 microgrammi) nel periodo tra il 2005-2010.

Purtroppo si tratta di una malattia dalla prognosi decisamente infausta, in quanto dopo 3 anni solo il 50 % dei malati risulta ancora in vita; è per questo che lo studio è particolarmente importante (nonostante il biossido di azoto non sia l’unica causa ma probabilmente un’importante concausa) per un lavoro di prevenzione.

A cura di M.B.

DA “LA STAMPA”

 

Ricerche di petrolio al largo di Leuca (Salento)

Legambiente Puglia lancia l’allarme per il permesso ottenuto dalla società petrolifera Global Med LLC per le ricerche di petrolio al largo di Santa Maria di Leuca: verranno utilizzati degli airgun, ovvero cannoni ad aria compressa che provocano onde sismiche sottomarine in grado di scandagliare i fondali attraverso rilevatori sonori per verificare la presenza di petrolio.

La tecnica dell’airgun è estremamente pericolosa per la fauna e la flora marina a causa della sua potenza in grado di perturbare gli ecosistemi marini; inoltre vi è un problema di estensione dell’area in cui si effettueranno le ricerche, in quanto l’area in questione è contigua ad altre due delle stesse dimensioni, col pericolo di trovarsi le trivelle a poco più delle 12 miglia nautiche dalla costa, ovvero la zona di interdizione confermata anche dal referendum abrogativo del 2016.

Nonostante le denunce di ambientalisti, cittadini e amministrazioni locali, il governo fa orecchie da mercante e preferisce continuare a svendere e pregiudicare lo sviluppo sano e sostenibile del territorio pugliese, in favore delle società petrolifere che concentrano la ricchezza energetica nelle proprie mani.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

Il “fracking” in Idaho causa sisma

Il “fracking”, una tecnica di estrazione del petrolio data dalla frantumazione delle rocce attraverso la pressione dell’acqua, ha causato in Idaho un sisma di magnitudo 5.3 con epicentro a 19 km a nord est di Georgetown. Fortunatamente non si sono registrati danni a cose o persone, ma gli scienziati avvertono che questa tecnica può potenzialmente causare forti terremoti.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

La caccia al petrolio e al gas nella Pianura Padana

Nonostante ormai lo storico giacimento dell’Eni a Cortemaggiore sia vuoto e la Basilicata si sia ormai aggiudicata il titolo di “Texas” d’Italia, l’interesse per gli idrocarburi sepolti nel sottosuolo della Pianura Padana non è venuto meno e la piana del Po è rimasta nei radar delle compagnie petrolifere. Tra Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto l’Unimig del Ministero per lo Sviluppo Economico ha autorizzato ben 53 permessi di ricerca sulla terraferma, più dell’insieme di quelli concessi al centro e al sud. La ripresa della ricerca del petrolio in Pianura Padana è avvenuta attorno al 2010 in quanto negli anni duemila sono state sviluppate nuove tecnologie di ricerca in profondità: il nord est risulta interessante per le compagnie petrolifere perché la sua conformazione geologica è favorevole all’accumulo e la conservazione degli idrocarburi, grazie alle Alpi che fanno da barriera e alcune tipologie di rocce che fanno da “tappo” contro la dispersione di gas e petrolio.

La compagnia Shell è oggi responsabile di un progetto di ricerca di idrocarburi a cavallo tra Piemonte e Lombardia, in un’area di 462 chilometri quadrati chiamata Cascina Alberto, e che era stata già oggetto di perforazioni da parte dell’inglese Northen Petroleum nel 2014, e il permesso durerà 6 anni. Si partirà con l’indagine geofisica (una sorta di “ecografia” al terreno fino a 6000 m di profondità) e a seguire, se l’esito sarà positivo, saranno scavati dei pozzi esplorativi nel 2022.

L’Eni a sua volta, dopo aver esaurito le riserve del giacimento di Villafortuna nel Piemonte orientale, ha iniziato a guardarsi intorno, e nel 2006 ha individuato a Carpignano Sesia il luogo dove scavare un pozzo esplorativo di 4000 m di profondità. Nel 2015 il progetto era stato però fermato dalla Regione Piemonte a causa della mancata valutazione dell’impatto del pozzo sulle falde, l’area della riserva idrica e le sorgenti presso quella località. Nel giugno scorso la decisione della Regione è stata ribaltata dal Ministero dell’Ambiente, che ha concesso il permesso, causando il malcontento della popolazione locale che ha formato un comitato di difesa del territorio che attraverso una colletta è riuscito a comprare il terreno sul quale Eni avrebbe impiantato la trivella. Un messaggio forte dei cittadini del luogo, che hanno invitato quelli di Cascina Alberto (il progetto di Shell) a fare altrettanto e a tenere gli occhi aperti su un nuovo progetto di trivellazioni della compagnia statunitense Aleanna presso la non lontana Cascina Graziosa. La Aleanna ha già in cantiere esplorazioni nel torinese e nel ferrarese. Meno fortuna ha avuto il braccio italiano dell’inglese Apennine, che con le trivellazioni a Zibido San Giacomo nel milanese ha ottenuto gas misto ad acqua e fango e ora pensa a battere in ritirata solo dopo aver trivellato a più di 4000 m di profondità.

A cura di M.B.

DA “BUSINESSINSIDER.COM”