Ricerche di petrolio al largo di Leuca (Salento)

Legambiente Puglia lancia l’allarme per il permesso ottenuto dalla società petrolifera Global Med LLC per le ricerche di petrolio al largo di Santa Maria di Leuca: verranno utilizzati degli airgun, ovvero cannoni ad aria compressa che provocano onde sismiche sottomarine in grado di scandagliare i fondali attraverso rilevatori sonori per verificare la presenza di petrolio.

La tecnica dell’airgun è estremamente pericolosa per la fauna e la flora marina a causa della sua potenza in grado di perturbare gli ecosistemi marini; inoltre vi è un problema di estensione dell’area in cui si effettueranno le ricerche, in quanto l’area in questione è contigua ad altre due delle stesse dimensioni, col pericolo di trovarsi le trivelle a poco più delle 12 miglia nautiche dalla costa, ovvero la zona di interdizione confermata anche dal referendum abrogativo del 2016.

Nonostante le denunce di ambientalisti, cittadini e amministrazioni locali, il governo fa orecchie da mercante e preferisce continuare a svendere e pregiudicare lo sviluppo sano e sostenibile del territorio pugliese, in favore delle società petrolifere che concentrano la ricchezza energetica nelle proprie mani.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

Allarme per l’erosione delle coste italiane

Negli anni ’80 i km di spiaggia in arretramento in Italia erano 600; oggi sono più che raddoppiati nonostante barriere di protezione poste al tempo della Commissione De Marchi per la difesa del suolo. Si può dire senza dubbio che la situazione è molto peggiorata anche a causa di questi interventi spot che hanno finito per aggravare il tutto, con costi enormi per il nostro paese, che si aggirano intorno ai 4,5 miliardi di euro. Molti sindaci hanno posto barriere in cemento e altre forme temporanee di protezione a puro scopo elettorale, senza capire che andavano spesso a danneggiare le spiagge vicine e i loro fragili equilibri naturali. Ad Ostia, ad esempio, gli interventi estemporanei tra 1990 e 2015 hanno fatto passare da 50.000 a 120.000 metri quadrati la parte di litorale soggetta ad erosione (con una spesa totale di 50 milioni di euro). Ma è solo un caso tra tanti. Gli interventi con sistemi di protezione rigidi sono fallimentari a detta dei geologi, infatti solo spostando la sabbia estratta da depositi marini si può sperare di arginare il problema (sistema già messo in atto a Copacabana e Miami ad esempio), non certo “murando” il mare. A parte i sistemi sbagliati per arginare l’erosione marina, c’è il problema dell’industrializzazione e urbanizzazione delle aree costiere che si espande a spese della difesa e la conservazione ambientale. Molti porti ed edifici di varia tipologia sono stati costruiti attuando un vero e proprio assalto al territorio; la cementificazione selvaggia con dighe, cave, strade e altre infrastrutture sta presentando il suo conto sul paesaggio ormai devastato dall’irresponsabilità di coloro che hanno costruito senza mai porsi il problema delle conseguenze sull’ambiente. Il cambiamento climatico inoltre sta portando l’innalzamento dei mari e molte spiagge entro fine secolo potrebbero sparire completamente ; per questo motivo è necessario ripensare in tempi rapidi il nostro rapporto col territorio e porre rimedio ai danni perpetrati sulle nostre coste spostando la sabbia e non cementificando ancora.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

La caccia al petrolio e al gas nella Pianura Padana

Nonostante ormai lo storico giacimento dell’Eni a Cortemaggiore sia vuoto e la Basilicata si sia ormai aggiudicata il titolo di “Texas” d’Italia, l’interesse per gli idrocarburi sepolti nel sottosuolo della Pianura Padana non è venuto meno e la piana del Po è rimasta nei radar delle compagnie petrolifere. Tra Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto l’Unimig del Ministero per lo Sviluppo Economico ha autorizzato ben 53 permessi di ricerca sulla terraferma, più dell’insieme di quelli concessi al centro e al sud. La ripresa della ricerca del petrolio in Pianura Padana è avvenuta attorno al 2010 in quanto negli anni duemila sono state sviluppate nuove tecnologie di ricerca in profondità: il nord est risulta interessante per le compagnie petrolifere perché la sua conformazione geologica è favorevole all’accumulo e la conservazione degli idrocarburi, grazie alle Alpi che fanno da barriera e alcune tipologie di rocce che fanno da “tappo” contro la dispersione di gas e petrolio.

La compagnia Shell è oggi responsabile di un progetto di ricerca di idrocarburi a cavallo tra Piemonte e Lombardia, in un’area di 462 chilometri quadrati chiamata Cascina Alberto, e che era stata già oggetto di perforazioni da parte dell’inglese Northen Petroleum nel 2014, e il permesso durerà 6 anni. Si partirà con l’indagine geofisica (una sorta di “ecografia” al terreno fino a 6000 m di profondità) e a seguire, se l’esito sarà positivo, saranno scavati dei pozzi esplorativi nel 2022.

L’Eni a sua volta, dopo aver esaurito le riserve del giacimento di Villafortuna nel Piemonte orientale, ha iniziato a guardarsi intorno, e nel 2006 ha individuato a Carpignano Sesia il luogo dove scavare un pozzo esplorativo di 4000 m di profondità. Nel 2015 il progetto era stato però fermato dalla Regione Piemonte a causa della mancata valutazione dell’impatto del pozzo sulle falde, l’area della riserva idrica e le sorgenti presso quella località. Nel giugno scorso la decisione della Regione è stata ribaltata dal Ministero dell’Ambiente, che ha concesso il permesso, causando il malcontento della popolazione locale che ha formato un comitato di difesa del territorio che attraverso una colletta è riuscito a comprare il terreno sul quale Eni avrebbe impiantato la trivella. Un messaggio forte dei cittadini del luogo, che hanno invitato quelli di Cascina Alberto (il progetto di Shell) a fare altrettanto e a tenere gli occhi aperti su un nuovo progetto di trivellazioni della compagnia statunitense Aleanna presso la non lontana Cascina Graziosa. La Aleanna ha già in cantiere esplorazioni nel torinese e nel ferrarese. Meno fortuna ha avuto il braccio italiano dell’inglese Apennine, che con le trivellazioni a Zibido San Giacomo nel milanese ha ottenuto gas misto ad acqua e fango e ora pensa a battere in ritirata solo dopo aver trivellato a più di 4000 m di profondità.

A cura di M.B.

DA “BUSINESSINSIDER.COM”

Addio sci d’estate

L’impianto sciistico dello Stelvio (Bolzano), a 3000 m di altitudine, non ha mai interrotto la sua attività nemmeno d’estate in ben 50 anni: quest’anno la situazione è talmente catastrofica che le piste chiudono fino a data da destinarsi. Tre centimetri di neve fresca certo non sono sufficienti per coprire i crepacci che si formano a causa dello scioglimento del ghiacciaio, che oggi anziché essere coperto di neve (come sarebbe normale a fine agosto) presenta alla vista il colore grigio delle sue rocce, della polvere e pure della sabbia africana che si è accumulata durante il passaggio degli anticicloni estivi. Lo Stelvio, valico più alto d’Europa, era l’unico luogo rimasto sulle Alpi italiane dove si poteva sciare per tutto l’anno: gli impianti della Marmolada avevano chiuso i battenti d’estate nel 2007 dopo una lunga agonia, seguiti da quelli del Presena e della Val Senales nel 2013.

Purtroppo i ghiacciai alpini stanno subendo un’erosione inesorabile da almeno quarant’anni e i teli estivi sono solo una cura palliativa per un male terminale. L’acqua scorre incessante dal corpo principale del ghiacciaio della Vedretta del Madaccio e lo zero termico è fissato a 4000 m, per cui, come sottolinea il direttore delle funivie dello Stelvio, pochi altri impianti (solo quelli sul Plateau Rosa e a Sass Fee) sono graziati dal problema dell’assenza di neve. Lo sci estivo sembra una disciplina destinata a sparire molto presto a causa dello scioglimento dei ghiacciai, che sta avvenendo ad una velocità spaventosa. Lo sci invernale sembra invece pronto ad affrontare nuove sfide: in Val Gardena le aziende Demaclenko e TechnoAlpin si contendono il settore della neve artificiale, rivaleggiando nell’obiettivo di produrre quest’ultima anche a temperature superiori allo zero. Il business dello sci è troppo ghiotto anche in tempi di cambiamento climatico e c’è da scommettere che le aziende del settore non si arrenderanno facilmente.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

Dossier Coldiretti sulle regioni

Le coltivazioni e gli alpeggi di tutta Italia sono in grande crisi a causa della siccità e la mancanza di acqua: in Piemonte il settore cerealicolo rende solo al 30 % e il settore foraggero al 50 %. Il fieno per il bestiame scarseggia persino nei pascoli di montagna nel Nord Italia, in Trentino, Piemonte e Lombardia. La raccolta di frutta, uva e nocciole è in serio pericolo, mentre in Liguria si temono gli incendi, che minaccerebbero alberi da frutta e oliveti, mentre le coltivazioni del famoso basilico soffrono per la mancanza d’acqua. In Emilia circa 2/3 dei campi non hanno più acqua e lo stato di emergenza per Parma e Piacenza è già stato sancito, con danni stimati per 100 milioni; il Po è sceso fino a 3,5 metri sotto lo zero idrometrico nei pressi di Pavia. Il Veneto si è già mosso con piani per contingentare l’acqua, in quanto gli agricoltori hanno bisogno di bagnare i campi di soia, mais, barbabietole e frutta. Quest’ultima ha contato perdite fino al 100% in Trentino nella Val di Non, Val di Sole e Valsugana. La Toscana a sua volta ha subito perdite di 50 milioni di euro per il grano tenero e duro, oltre che per coltivazioni di mais, oliveti e vigneti. Nelle Marche invece i foraggi crollano del 50% e la produzione casearia, a causa dello stress della calura tra il bestiame, è diminuita del 20%.

A cura di M.B.

DA SITO “www.coldiretti.it”