I ghiacci si rompono e si aprono nuove rotte nell’Artico

Le navi cargo utilizzate come rompighiaccio dai colossi della navigazione come Maersk Line stanno sempre di più addentrandosi nell’Artico, dove ormai lo strato di ghiaccio è sempre più sottile o assente. Il rialzo fino a 30 gradi delle temperature del circolo polare artico ha portato la compagnia danese ad annunciare una nuova rotta a nord della Russia, una potenziale rotta “rivale” per il Canale di Suez attraverso il quale tradizionalmente avvengono i commerci marittimi tra Asia ed Europa. Tuttavia la riduzione di una o due settimane dei tempi di viaggio tra i due continenti ha un costo più elevato. Il passaggio sarebbe consentito solo nei mesi estivi, ma le temperature calde e i ghiacci sempre più radi stanno rendendo l’estate ben più lunga di una volta in quelle zone. I passaggi a nord est (costeggiando la Siberia) e a nord ovest (costeggiando l’Alaska) rendono di 10-12 giorni più breve la navigazione Asia-Europa rispetto a Suez, ma sinora queste soluzioni erano praticabili per non più di 2-3 mesi l’anno: ora, col cambiamento climatico, potrebbe non essere più così, e le compagnie si preparano. La risposta della Cina a questa situazione sarebbe invece un rivoluzionario passaggio marittimo che dallo stretto di Bering punta direttamente in Islanda, una sorta di “transpolare”, che ridurrebbe i tempi di addirittura due terzi rispetto a Suez. Nell’ambito dei commerci equivarrebbe ad una nuova scoperta dell’America, ma non si sa quanto ciò possa far bene all’ambiente invece.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

In Norvegia l’economia della pesca sostituirà quella del petrolio?

La ricchissima Norvegia, massima produttrice di gas e petrolio (20 volte più dell’Italia), ha fondato sull’estrazione di quest’ultimo il proprio welfare insuperato: il fondo sovrano norvegese, che vale 886 miliardi di dollari, paga le pensioni ai propri anziani, la scuola ai propri giovani e assicura un elevato stile di vita alla popolazione intera. Nel 2015 però gli investimenti nel settore sono calati del 23%, bruciando circa 40.000 posti di lavoro. Tuttavia i norvegesi non si sono persi d’animo e hanno deciso di puntare sulla pesca, business già fiorente, ma ora più che mai in ascesa. Nel 2016 la Norvegia ha prodotto il 54% del salmone proveniente dalle acque atlantiche e ne ha esportate 1,1 milioni di tonnellate per l’equivalente di 6,5 miliardi di euro. Il salmone, ricco di Omega 3 e dall’alto valore nutrizionale, è arrivato a costare più di un barile di petrolio. Il mercato registra un’impennata netta di richiesta di questo pesce sulle tavole di tutta Europa, tra cui l’Italia dove dal 2010 la richiesta registra un eclatante + 257%. Il salmone, una volta visto come prodotto pregiato da concedersi solo in occasioni speciali, è diventato molto più accessibile grazie anche alla moda dei ristoranti di sushi. Le importazioni dalla Norvegia costituiscono l’80% anche se è in aumento anche l’importazione dalla Cina. Marine Harvest, colosso norvegese della produzione di salmone e trota affumicata, ha in programma l’apertura di una catena di ristoranti in Cina per far scoprire al mondo asiatico la prelibatezza dei prodotti ittici norvegesi (in Cina il salmone è ancora poco diffuso come cibo). La Norvegia in sostanza sta promuovendo la moda dei ristoranti orientali in Europa vendendo al contempo i propri prodotti in Cina, Taiwan e Giappone. Sono passati decenni prima che il salmone norvegese facesse breccia nelle tavole giapponesi, in quanto vi erano radicati preconcetti verso il salmone a causa di una confusione tra quello del Pacifico (poco amato dai nipponici) e quello dell’Atlantico. La Norvegia ha dovuto inoltre fronteggiare le accuse sul metodo di approvvigionamento del salmone: gli allevamenti intensivi, l’uso di antibiotici e pesticidi. In questo la Norvegia ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni, promuovendo la crescita sostenibile e il rispetto per la materia prima (vaccini biologici somministrati singolarmente ai pesci per evitare l’uso di medicinali, prevenzione di “fughe” dei pesci d’allevamento, ricambio d’acqua costante). Le autorità assicurano che il paese sottopone le aziende a controlli molto severi di sostenibilità ambientale prima di permettere l’allevamento dei salmoni. Col nuovo governo conservatore le isole Lofoten rimarranno non trivellabili, dopo la presentazione di una petizione largamente appoggiata nel paese e nel 2030 si è posto l’obiettivo di essere carbon free: che la Norvegia stia puntando il suo futuro sull’allevamento di salmone per non dipendere più dal petrolio? Molto probabile.

DA “businessinsider.com”

A cura di M.B.

Riserve ittiche ai minimi

L’ONU continua a denunciare il depauperamento dei mari, saccheggiato da mezzo secolo di pesca selvaggia: la situazione rischia di trasformarsi presto in un disastro ambientale con il 90% delle riserve ittiche con un surplus di pescato. Oltre al danno per l’ecosistema ci sarebbero pesanti ripercussioni su coloro che lavorano nel settore della pesca, per il 97% nei paesi in via di sviluppo (in totale 60 milioni di persone). Per questo motivo nel 2015 nell’ambito dell’Agenda 2030, 193 nazioni si sono impegnate a sottoscrivere 17 “Sustainable Development Goals” tra cui “Life Underwater”, l’articolo numero 14, volto alla protezione della fauna e la flora marina. In quella sede è stato stabilito che l’unico metodo efficace per mettere un freno allo scempio dei mari è il taglio dei sussidi alla pesca entro il 2020. Le agevolazioni sul gasolio marino portano alla formazione di flotte sempre più grandi, colossi che sono responsabili dell’85% del pescato mondiale ma che danno lavoro solo al 10% dei pescatori, mentre solo le briciole vengono lasciate al restante 90%, i più poveri proprietari di modesti pescherecci, i meno responsabili dunque per il disastro ambientale causato nei mari. Il punto della situazione lo si è fatto lo scorso luglio in una due giorni a Ginevra, l’Oceans Forum, dove ONU e FAO agiscono da coordinatrici. La priorità è continuare sulla strada dei tagli ai sussidi, ma molti paesi sembrano essersi già messi sulla strada giusta, come Malta, Maldive, Ecuador e Perù, che stanno incrementando le buone pratiche per la pesca sostenibile e puntando su settori alternativi come acquacultura e produzione di alghe per consumo alimentare.

DA “La Stampa”

A cura di M.B.

Groenlandia: si stacca iceberg grande 1/3 di Manhattan

Alcuni scienziati della NY University hanno filmato il momento in cui un iceberg ampio sei km si è staccato da un ghiacciaio in Groelandia. Questo fenomeno, chiamato “calving” è causa dell’aumento del livello dell’acqua. Gli scienziati stanno studiando da una decina d’anni i cambiamenti di temperatura e di livello dell’acqua in Groenlandia, e questo video riassume in 90 secondi l’esito di un processo di distacco partito solo circa un mese fa.

DA “IL CORRIERE DELLA SERA”

A cura di M.B.

Greenpeace sulla plastica: il riciclo non salverà i nostri mari

Il rapporto intitolato “Plastica: riciclare non basta. Produzione, immissione al consumo e riciclo di plastica in Italia” e redatto dalla Scuola Agraria del Parco di Monza per Greenpeace ha analizzato l’efficacia del sistema di riciclo degli imballaggi di plastica nel nostro paese e ha tratto la conclusione che per quanto ben funzionante non sarebbe comunque sufficiente ad arginare il problema dell’inquinamento nei nostri mari. Sempre secondo la ricerca, dal momento che la produzione di materiali plastici raddoppierà l’attuale volume entro il 2025, sarà necessario ridurre urgentemente e drasticamente l’immissione sul mercato di imballaggi in plastica. Il responsabile della campagna anti inquinamento di Greenpeace Italia, Giuseppe Ungherese, ha aggiunto che le grandi aziende produttrici di plastica, pur pienamente consapevoli dell’impossibilità di riciclarla tutta, continuano a produrre sempre più usa e getta. Il nostro paese in Europa è secondo solo alla Germania in tema di produzione di plastica, con un consumo pari a 6-7 miliardi di tonnellate l’anno (di cui il 40% sono imballaggi). Nonostante il riciclo sia aumentato al 43% nel 2017, l’utilizzo della plastica monouso continua ad aumentare. Inoltre la quantità di imballaggi in plastica non riciclati è rimasta invariata da anni, vanificando sforzi ed investimenti per rendere efficiente la differenziata; i dati Corepla del 2017 ci dicono che solo 4 imballaggi su 10 vengono riciclati, mentre 4 restanti vengono portati agli inceneritori e 2 vengono dispersi nell’ambiente. L’incremento previsto della pratica del riciclo purtroppo non riesce a bilanciare l’immesso nel consumo, nemmeno attraverso sistemi come la Responsabilità Estesa del Produttore o la possibile introduzione di depositi su cauzione. Greenpeace sostiene che la durevolezza e la riusabilità siano, per questo motivo, caratteristiche più importanti della riciclabilità del materiale e si rivolgono alle aziende come McDonalds e Starbucks, Coca-Cola e Nestlé (e tante altre) con una petizione sottoscritta da più di un milione di persone, per ridurre l’utilizzo di plastica monouso e imballaggi.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.