La nostra vita dipende dall’oceano ma lo stiamo uccidendo

Vladimir Ryabinin, segretario esecutivo della Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco ha lanciato un forte monito sul fatto che in futuro le acque del pianeta si riscalderanno, s’innalzeranno e conterranno più residui plastici che pesci. Le conseguenze saranno catastrofiche: uragani violenti, aree costiere sommerse e persone costrette ad emigrare, riduzione di ossigeno nell’acqua e nell’atmosfera per l’assenza di fitoplancton e proliferazione di alghe tossiche. L’oceano in poche parole sarà mezzo morto: abbiamo lasciato la nostra culla primordiale, le acque, per poi tornare a distruggerle con inquinamento e azioni scellerate, che pagheremo care. Questo è il momento di agire e mettere sul tavolo tutte le conoscenze e competenze per la salvaguardia dell’ecosistema marino, da cui dipendono direttamente 3 miliardi di persone per la loro sussistenza.

Purtroppo i dati sono sconfortanti: il rapporto plastica:pesci è 1:1, le tonnellate di rifiuti sversati in mare ogni anno sono 8, il 40% degli oceani è danneggiato a causa di attività umane e sono 1,2 milioni per chilometro quadrato i frammenti di microplastiche nel Mediterraneo. Questi dati dovrebbero bastare a far salire questo tema nelle agende dei governi, che hanno consapevolezza del problema ma spesso si arenano quando si tratta di gestirlo in modo efficace e incisivo, mancano politiche comuni e solo l’1% delle risorse economiche vengono spese per la ricerca sugli oceani nel mondo; in realtà sarebbe un investimento lungimirante dato lo stato delle cose. Il mare sta combattendo per la sopravvivenza, ma noi dobbiamo aiutarlo per aiutare noi stessi.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

33 siti costieri italiani rischiano di sparire entro il 2100

Entro il 2100 lo scenario migliore prevede un innalzamento dei mari di 30 cm, quello peggiore di un metro e mezzo: zone come la Laguna di Venezia e il Delta del Po saranno palesemente ad alto rischio di essere sommerse dalle mareggiate. Ma vi sono anche altre zone come la Versilia, la piana pontina, Fondi, e le zone costiere di Catania, Taranto e Cagliari che rischierebbero molto: 7500 chilometri quadrati di costa che tra ottant’anni potrebbero sparire sott’acqua. L’Associazione italiana di geomorfologi avverte che il pericolo non verrà soltanto da terremoti, vulcani o esondazioni di fiumi ma anche dalle mareggiate, causate dalle precipitazioni sempre più intense (quasi monsoniche) che si verificheranno nel mar Mediterraneo con conseguenti alluvioni ed inondazioni.

Per questo motivo le università di Bari e del Salento, in collaborazione col Centro studi mediterraneo per i cambiamenti climatici, hanno messo a punto un sistema innovativo, presentato ieri, in grado di definire in tempo reale gli effetti di una mareggiata eccezionale e costruire scenari verosimili: il sistema si chiama “Start”, acronimo di Sistemi di rapid mapping e controllo del territorio costiero e marino. Ormai è provato scientificamente che gli effetti del mutamento climatico implementato dall’attività umana impatteranno duramente anche sulla fascia costiera italiana ed è chiaro a tutti che non si può più essere impreparati a questi eventi.

DA “IL CORRIERE DELLA SERA”

A cura di M.B.

Dal Giappone agli USA: lo tsunami del 2011 ha trascinato 600 specie attraverso il Pacifico

Ben 289 specie marine sono state trascinate per attraverso l’Oceano Pacifico dallo tsunami che si verificò in Giappone nel marzo 2011: tra di esse vi sono telline, anemoni, meduse, stelle di mare.

Una vera e propria migrazione di massa, mai vista nella storia secondo lo scienziato James T. Carlton del Williams College in USA, che ha condotto in collaborazione con l’Università dell’Oregon una ricerca sulle specie marine giapponesi presenti nel mare della costa dell’Oregon.

Gli organismi marini hanno sostanzialmente viaggiato “a cavallo” di pezzi di plastica, bottiglie e residui di barche sull’onda dello tsunami, e sono state trascinate verso un nuovo habitat molto lontano da quello originario: il 20% delle specie studiate sembra siano riuscite a riprodursi, ma è ancora presto per dire come se la caveranno a lungo termine nel nuovo ambiente.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

Ricerche di petrolio al largo di Leuca (Salento)

Legambiente Puglia lancia l’allarme per il permesso ottenuto dalla società petrolifera Global Med LLC per le ricerche di petrolio al largo di Santa Maria di Leuca: verranno utilizzati degli airgun, ovvero cannoni ad aria compressa che provocano onde sismiche sottomarine in grado di scandagliare i fondali attraverso rilevatori sonori per verificare la presenza di petrolio.

La tecnica dell’airgun è estremamente pericolosa per la fauna e la flora marina a causa della sua potenza in grado di perturbare gli ecosistemi marini; inoltre vi è un problema di estensione dell’area in cui si effettueranno le ricerche, in quanto l’area in questione è contigua ad altre due delle stesse dimensioni, col pericolo di trovarsi le trivelle a poco più delle 12 miglia nautiche dalla costa, ovvero la zona di interdizione confermata anche dal referendum abrogativo del 2016.

Nonostante le denunce di ambientalisti, cittadini e amministrazioni locali, il governo fa orecchie da mercante e preferisce continuare a svendere e pregiudicare lo sviluppo sano e sostenibile del territorio pugliese, in favore delle società petrolifere che concentrano la ricchezza energetica nelle proprie mani.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”

Allarme per l’erosione delle coste italiane

Negli anni ’80 i km di spiaggia in arretramento in Italia erano 600; oggi sono più che raddoppiati nonostante barriere di protezione poste al tempo della Commissione De Marchi per la difesa del suolo. Si può dire senza dubbio che la situazione è molto peggiorata anche a causa di questi interventi spot che hanno finito per aggravare il tutto, con costi enormi per il nostro paese, che si aggirano intorno ai 4,5 miliardi di euro. Molti sindaci hanno posto barriere in cemento e altre forme temporanee di protezione a puro scopo elettorale, senza capire che andavano spesso a danneggiare le spiagge vicine e i loro fragili equilibri naturali. Ad Ostia, ad esempio, gli interventi estemporanei tra 1990 e 2015 hanno fatto passare da 50.000 a 120.000 metri quadrati la parte di litorale soggetta ad erosione (con una spesa totale di 50 milioni di euro). Ma è solo un caso tra tanti. Gli interventi con sistemi di protezione rigidi sono fallimentari a detta dei geologi, infatti solo spostando la sabbia estratta da depositi marini si può sperare di arginare il problema (sistema già messo in atto a Copacabana e Miami ad esempio), non certo “murando” il mare. A parte i sistemi sbagliati per arginare l’erosione marina, c’è il problema dell’industrializzazione e urbanizzazione delle aree costiere che si espande a spese della difesa e la conservazione ambientale. Molti porti ed edifici di varia tipologia sono stati costruiti attuando un vero e proprio assalto al territorio; la cementificazione selvaggia con dighe, cave, strade e altre infrastrutture sta presentando il suo conto sul paesaggio ormai devastato dall’irresponsabilità di coloro che hanno costruito senza mai porsi il problema delle conseguenze sull’ambiente. Il cambiamento climatico inoltre sta portando l’innalzamento dei mari e molte spiagge entro fine secolo potrebbero sparire completamente ; per questo motivo è necessario ripensare in tempi rapidi il nostro rapporto col territorio e porre rimedio ai danni perpetrati sulle nostre coste spostando la sabbia e non cementificando ancora.

A cura di M.B.

DA “LA REPUBBLICA”