Gli indigeni del lago Poopo in Bolivia costretti ad emigrare

Il lago Poopo in Bolivia, ormai da alcuni anni completamente all’asciutto, era il punto di riferimento della comunità degli Uru-Murato, i quali hanno visto il loro lago prosciugarsi a causa di inquinamento, siccità e a causa delle attività delle limitrofe miniere. Oggi gli indigeni fanno molta fatica a praticare le loro tradizionali attività agricole, hanno cercato di convertirsi alla coltivazione della quinoa, ma con scarso successo. Sta iniziando una vera e propria migrazione di massa verso le città, che oltre a provocare sofferenze in chi è coinvolto direttamente in questa catastrofe, causerà una perdita incommensurabile di conoscenze e tradizioni una volta che gli indigeni spariranno nelle grandi città globalizzate.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Mekong: il fiume conteso tra Cina e Sudest asiatico

Il fiume Mekong, le cui piene una volta giungevano naturalmente con l’alternarsi delle stagioni, un fiume pescoso, ora è flagellato dalla siccità e l’inquinamento, sfruttato al massimo attraverso la costruzione di numerose dighe che hanno creato danni all’agricoltura e bloccato le migrazioni dei pesci. I pescatori cambogiani ormai si sono trasferiti in città per lavorare come operai nel settore delle costruzioni, poiché il lavoro che svolgevano i loro antenati da tempo immemore non è più redditizio. Il Mekong è sempre stato conteso per lo sfruttamento idrico, sfondo di guerre e massacri, una storia vissuta per la maggior parte del tempo all’oscuro dell’Occidente, un territorio inaccessibile per buona parte del ‘900 a causa del regime comunista. Il Mekong attraversa Cina, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam e la sua biodiversità, specie per quanto riguarda i pesci, è superiore anche al Rio delle Amazzoni. Il Mekong lambisce un territorio in cui vivono di pesca e cerealicoltura da millenni mezzo miliardo di persone. Nel 1995 nasce la Mekong River Commission, un forum intergovernativo (il cui parere non è però vincolante) composto da Thailandia, Cambogia, Laos e Vietnam, che ha il compito di discutere la gestione delle acque e lo sviluppo sostenibile. Cina e Birmania agiscono solo formalmente da interlocutori esterni. Da allora è stato un fiorire di forum e organizzazioni per gestire le acque del fiume, ormai diventate strumento di geopolitica. La Cina però è il maggiore finanziatore dei progetti, dunque le discussioni sui progetti avvengono di fatto bilateralmente tra la Cina e la regione o la città interessata dai lavori; la retorica cinese non manca mai di sottolineare l’aspetto di condivisione di queste infrastrutture, nonostante si rifiuti sistematicamente di consultarsi con i paesi non direttamente interessati dal singolo progetto. La gestione delle acque dunque è di fatto in mano alla Repubblica Popolare e gli ambientalisti non ci stanno: il livello del fiume si è abbassato a causa delle dighe fatte costruire dai cinesi, i quali non hanno ascoltato la richiesta fatta dalla Mekong River Commission di valutarne l’impatto ambientale. Le attività tradizionali come la pesca hanno subito un brusco calo e il Laos e il Vietnam saranno i paesi che, essendo più poveri e sottosviluppati, pagheranno il prezzo più alto: fungeranno da “pile” per l’energia idroelettrica del sudest asiatico attraverso la costruzione delle centrali idroelettriche sugli affluenti del Mekong, ma l’energia sarà venduta a Thailandia e Cambogia. C’è da scommettere che la popolazione dei paesi più poveri non trarrà alcun vantaggio dalla situazione, solo la distruzione degli habitat e la scomparsa dei loro mezzi di sussistenza millenari.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

Trivellazioni nell’Artico: respinto il ricorso degli ecologisti in Norvegia

Le Ong ecologiste e Greenpeace, le quali si erano appellate alla giustizia norvegese contro le trivellazioni nel mare Artico, hanno subito una pesante sconfitta contro le compagnie petrolifere, che potranno continuare indisturbate le loro attività, appoggiate dal governo populista conservatore di Erna Solberg. La giustizia norvegese ha ritenuto le trivellazioni legittime e non in contrasto con l’accordo di Parigi; ora le ong ecologiste si troveranno a dover pagare 60 mila euro di spese legali, il prezzo per essersi messe contro le potenti compagnie petrolifere Statoil (norvegese), Chevron e ConocoPhillips (americane) e Lukoil (russa). La Norvegia si crede immune da critiche in quanto sostiene, attraverso la giustizia e i ministri del governo, di fare già abbastanza per la lotta all’inquinamento e alle emissioni (guardando il loro orticello avrebbero certo ragione, ma non è quello il senso dell’accordo di Parigi), in quanto il loro petrolio (di cui sono i primi produttori in Europa) in realtà verrebbe consumato e bruciato in altri paesi. A noi i soldi (nel 2016 hanno guadagnato 37 miliardi e 400 milioni), a voi la colpa del cambiamento climatico, questo è l’atteggiamento del paese più ricco d’Europa; la Norvegia non è poi così virtuosa come vorrebbe far credere e gli ecologisti hanno giustamente annunciato battaglia in appello.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

L’ondata di gelo che sferza l’America

L’East Coast americana, da nord a sud, sarà interessata in questi giorni da venti gelidi e neve, tanto che le autorità hanno deciso per la chiusura di attività pubbliche e scuole. La chiamano “bomb cyclone” perché crea un repentino abbassamento delle temperature, un calo di pressione “esplosivo” causato dall’incontro della massa d’aria calda dal Golfo del Messico e quella fredda proveniente da nord ovest. La massa ciclonica ora si sta dirigendo verso nord, e ha già colpito con neve e gelo New York, mentre in Maine e Rhode Island sono previste temperature polari. In Florida e negli stati del sud la neve non si vedeva da parecchi anni; le autorità locali hanno messo in guardia la popolazione sulla possibilità di estesi blackout e hanno raccomandato di spostarsi solo se strettamente necessario. La maggior parte dei voli sugli aeroporti di New York è stata cancellata (fino a 90% dei voli su “La Guardia”).

 

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

L’energia pulita cresce sempre di più negli USA nonostante Trump

Se da un lato il presidente Trump ed il suo staff hanno ritirato gli USA dagli accordi di Parigi ed isolato il paese, formalmente non più impegnato nella lotta al cambiamento climatico, dall’altro i singoli stati e persino le singole città americane stanno lavorando sempre più nella direzione della “green economy”. Mentre il presidente rispolvera la più antica accusa alle energie pulite, ovvero quella di essere troppo costose, le alternative energetiche “green” come ad esempio i pannelli fotovoltaici, stanno diventando rapidamente l’opzione più economica (il prezzo è sceso del 70% dal 2010 secondo l’International Energy Agency). Inoltre le agevolazioni fiscali sulle rinnovabili, risalenti all’era pre-Trump, sono sopravvissute. La tecnologia digitale rende sempre più efficiente, pulito ed avanzato il mercato dell’energia elettrica e delle batterie (ed anche in questo caso si registra una diminuzione dei prezzi). Nonostante i tentativi fatti da Trump per rilanciare l’industria del carbone, più della metà delle centrali negli USA sono chiuse dal 2010 e, secondo Carbon Tracker (think tank con base in Inghilterra), nel futuro non converrà più continuare a mantenere le rimanenti centrali a carbone, ma sarà meno costoso installare nuove centrali di gas naturale e rinnovabili. Stessa situazione in Europa, Cina e Australia, con crolli di utilizzo del carbone dal 40% al 2% nel settore dell’energia elettrica in UK. Il crollo verticale del carbone fossile sembra essere davvero inesorabile, mentre le energie rinnovabili hanno registrato un boom straordinario. Non si tratta di un trend temporaneo, ma di una vera e propria ascesa che sostituirà completamente negli anni a venire il carbone fossile, “catturando” tre quarti degli investimenti a livello globale.  Il cambiamento sta seguendo un ritmo molto più serrato del previsto grazie alle tecnologie digitali nel campo del solare ed eolico (ad esempio), ed entro il 2040 l’utilizzo di energie alternative raggiungerà un’ampia diffusione. I dati provenienti da più fonti autorevoli, sia governative che indipendenti, non fanno altro che ribadire come non sia possibile far tornare indietro le lancette del progresso, nemmeno se a volerlo è il presidente degli USA.

 

DA “INSIDECLIMATENEWS.ORG”

A cura di M.B.