L’estate killer dell’India

In India, tra il mese di aprile e maggio, arriva il vento caldo dell’estate indiana, con i suoi incendi della vegetazione a causa della siccità estrema; in quattro anni (dal 2012 in poi), secondo l’”Hindustan Times”, sono stati cinquemila i morti in India a causa del caldo, senza contare i numerosi suicidi di contadini che vedono la propria terra inaridirsi senza rimedio. Tra maggio e inizio giugno in molte zone dell’Asia si sono registrate temperature sopra i 40º con picchi di 50º percepiti, e le vittime molto spesso sono coloro che svolgono lavori duri all’aria aperta, ovvero agricoltori ed operai. Nel 2016 sono stati 1600 i morti a causa delle condizioni meteorologiche in India, di cui 557 per le conseguenze dirette del caldo, e le regioni più colpite, che hanno registrato 46º sono state l’Andhra Pradesh e Telangana, dove se non cadrà un po’ di pioggia riparatrice, ad agosto soffriranno una condizione ancora peggiore. L’Università della California Irvine e l’Indian Institute of Technology hanno stimato una crescita del 146 % della possibilità di morire in India a causa del caldo dal 1960 (da quando la temperatura terrestre è aumentata di mezzo grado centigrado) e le ondate di caldo sono aumentate fino al 50% in alcune regioni. Purtroppo in futuro le morti direttamente causate dal caldo potrebbero aumentare drasticamente, se nulla viene fatto per contenere il riscaldamento globale. Inoltre sono drammatici i numeri delle morti indirettamente causate dalla siccità, ovvero i suicidi: un incremento del 40% tra 2014 e 2015, in particolare nelle regioni di Maharastra e Karnataka. Le riserve d’acqua (pozzi, cisterne, acquedotti) hanno portata diminuita del 20% e il prezzo dell’acqua è sempre più alto; quest’anno forse nemmeno i monsoni riusciranno a coprire il fabbisogno d’acqua.

DA  SITO “ANSA”

A cura di M.B.

Se l’America si ritira dall’accordo di Parigi

Il trattato di Parigi, firmato nel 2015 da 195 paesi per contrastare il riscaldamento globale e dunque il cambiamento climatico, ha alle spalle una lunga elaborazione e lunghi anni di ricerca di convergenze tra i vari paesi sul tema, a partire dal protocollo di Kyoto del 1997, primo impegno sulla questione. Il cambiamento climatico avvenuto nel corso del XX secolo e che continua tutt’oggi a ritmi sempre più incalzanti, è un fenomeno accertato e principalmente di natura antropica. La temperatura nel corso dell’ultimo secolo è aumentata di tre quarti di grado e il timore tra la comunità scientifica è che il fenomeno nel XXI secolo possa aggravarsi, con un aumento non più di frazioni di grado ma di gradi tondi, cosa che renderebbe il nostro pianeta irriconoscibile verso fine secolo. Non bisogna sottovalutare la forza inerziale con cui continua e si velocizza il cambiamento climatico, che solo immani sforzi collettivi da parte dell’essere umano possono sperare anche solo di rallentare o contenere. L’effetto serra è il motore di questo riscaldamento globale, che avanza con rapidità come mai in passato, a causa dell’uomo e del suo utilizzo massiccio di carboni fossili. La maggior parte della comunità scientifica è concorde sulla natura antropica del cambiamento climatico negli ultimi 50 anni ca., mentre un’altra parte, più esigua, è convinta che il riscaldamento globale sarebbe avvenuto in ogni caso, a prescindere dall’operato umano. L’amministrazione del presidente Trump sembra fare leva non tanto su motivazioni scientifiche per negare il cambiamento climatico, quanto su interessi elettorali legati alla costosa conversione dell’industria americana in un’industria verde e sostenibile. Se Trump deciderà di ritirarsi dall’accordo di Parigi, gli scenari possibili sono due: il paese potrebbe, a prescindere dalla decisione presa dal presidente, continuare la lotta all’effetto serra, tuttavia se il paese si allineasse alla politica di Trump, molti altri (forse fatta eccezione per quelli europei) si ritirerebbero dall’accordo e ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi del 2050 sarebbe vanificato.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.

Giornata della biodiversità: Coldiretti, in Italia persi 3 frutti su 4

La biodiversità ha subito una grave perdita nell’ultimo secolo e Coldiretti stima che 3 varietà di frutta su 4 ormai siano introvabili in Italia; tuttavia il problema non riguarda solamente le varietà di vegetali e frutta ma anche gli animali. Non si tratta solo di conservare il valore naturalistico della biodiversità ma di difendere il made in Italy, di difendere la produzione di qualità del nostro paese, nota in tutto il mondo. In Italia nel secolo scorso erano presenti ben 8000 varietà di frutta, mentre oggi se ne contano solo 2000, di cui 1500 minacciate dalla distribuzione commerciale che favorisce grandi quantità e prodotti standardizzati. La buona notizia è che l’Italia negli ultimi anni è entrata a far parte dei paesi più virtuosi d’Europa per ciò che riguarda l’agricoltura green (conta 60.000 aziende agricole biologiche), la consapevolezza dei consumatori e la messa al bando degli Ogm e gli ormoni nella carne. Inoltre si contano 4965 prodotti tradizionali censiti in Italia tra Doc/Docg e Dop/Igp, i cui “custodi” sono contadini che si occupano di mantenere viva la produzione di queste prelibatezze locali e favorire la riscoperta di specie vegetali dimenticate come la pera cocomerina, le giuggiole e il corbezzolo. Va riconosciuto anche l’impegno degli allevatori, che hanno scongiurato l’estinzione di 130 specie animali, tra cui la gallina di Polverara, la capra Girgentana e l’asino romagnolo. Nell’occasione della 17esima Giornata mondiale per la biodiversità, è necessario ribadire con forza che la protezione della flora e della fauna a rischio non è più rimandabile e che già la biodiversità si è ridotta del 40 % tra il 1970 e il 2000. Varie regioni saranno coinvolte nell’organizzazione di eventi per far conoscere le specie vegetali locali, Legambiente darà appuntamento ad Ostia per parlare di spiagge fondali puliti, mentre il Muse a Trento si occuperà di far conoscere al pubblico le farfalle tropicali delle foreste pluviali.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Meno anidride carbonica e più lavoro

Il World Energy Council Italia e l’Associazione Italiana per il Clima hanno di recente firmato la Carta di Trevi, ovvero un decalogo per la transizione a basse emissioni serra, approvato a seguito del meeting organizzato da WEC. La Carta di Trevi sottolinea l’importanza di un’azione corale da parte di cittadini, istituzioni e industria per ottenere vantaggi economici, ambientali e occupazionali dalla transizione alle energie pulite. Il meeting di tre giorni ha visto la partecipazione di operatori del settore energetico, stakeholders, politici e amministratori, che hanno convenuto sulla necessità che in Italia vi sia da un lato un sistema energetico con una fornitura stabile e competitiva dal punto di vista dei prezzi e dall’altro che si rispettino gli impegni presi a Parigi. Per raggiungere questi obiettivi bisogna intervenire sulla mobilità, uno dei settori in cui l’impatto ambientale resta più alto, e sulla forza lavoro; si stima che nei settori low carbon dell’energia lavorino attualmente 9 milioni di persone (tra il 30-50% dei ricercatori di energie innovative), ma che nel 2020 se ne aggiungeranno altri 5 milioni e fino al 2030 altri 6,3 milioni.

DA “LA REPUBBLICA”

A cura di M.B.

Allarme Lipu su specie selvatiche in Europa

In soli 10 anni la percentuale degli uccelli selvatici a rischio estinzione è balzata in avanti del 70 %: dalle 40 specie in pericolo tra il 1990-2000 alle 68 del decennio 2000-2010. L’informazione proviene dalla ricerca “Birds of Europe 3”, redatta dalla Ong animalista Birdlife International e presentata in Italia in questi giorni dalla Lipu. Sono state prese in considerazione 541 specie selvatiche in 50 paesi europei, avvalendosi dell’aiuto di ornitologi e appassionati. In Italia le specie minacciate sono ad esempio la berta minore (un volatile che nidifica presso le coste) e il nibbio reale, particolarmente diffuso in meridione. Il coturnice, la tortora selvatica, la pavoncella, il tordo sassello e il moriglione, nonostante siano inseriti nella lista delle specie a rischio, sono ancora considerati per legge cacciabili; la Lipu si è già mossa per richiedere alle autorità competenti l’eliminazione di queste specie dalla lista di quelle cacciabili.

DA “LA STAMPA”

A cura di M.B.